Al tempo del Coronavirus e in un’atmosfera generale surreale, emergono pensieri e riflessioni come quelli del monferrino Max Biglia:
«L’emergenza ci costringe a vivere da giorni rinchiusi tra le mura accoglienti di questa casa; stiamo alle regole, ci diamo da fare, parliamo, siamo aggiornati, forse un po’ impauriti, talvolta impazienti. Siamo donne, uomini e soprattutto loro, i ragazzi, dalle situazioni complesse ma pur sempre giovani e desiderosi in questa “casa speciale” in cui si tessono storie spesso dolorose, sentimenti, domande, paure ma anche entusiasmo e ambizioni. Costretti a interrompere la scuola, la formazione, le attività sportive, il catechismo, gli incontri con gli amici, i volontari e gli affetti, presenze di grande aiuto nella quotidianità di una dimensione già molto provata dalle complessità.
Raccontare questa “casa speciale” significa raccontare le storie degli adulti e degli adolescenti che si combinano. Un grande tavolo, il profumo del caffè, la brocca dell’acqua, le voci, gli sguardi , la condivisone, gli avvicendamenti. Occorrono ascolto, confronto, scelte ponderate e azioni. Insomma, senza caffè è dura! Ogni sera le luci si spengono, ogni giorno un’avventura simile ma mai uguale; gli operatori lavorano in sintonia, con espressioni e caratteri diversi. Parola dopo parola, sguardo dopo sguardo, silenzio dopo silenzio si concepiscono le relazioni. Una comunità è anche questo, riconoscere tempi differenti e differenti bisogni di luci e ombre. L’ascolto e il dialogo sono il pane quotidiano, una strada impalpabile dove camminare accanto e dove le storie difficili si incontrano per vivere insieme, condividere spazi, accettare compromessi e regole. Una palestra che porta dal dividere al condividere.
Essere con i ragazzi è un momento importante. Con loro si affronta una quotidianità che non è quella di sempre, ha un vestito insolito, diverso. Bisogna mettere a posto le stanze, fare le pulizie, igienizzare, aiutare in cucina con le mascherine, fare i compiti, incontrare insegnanti e genitori in videochiamata. Ognuno di loro ha compreso la situazione, le limitazioni e lo stare “dentro”, non facile certo, ciò nonostante ci riescono e si impegnano. Ognuno dei ragazzi di questa “casa speciale” ha capito e ci sta spiegando il valore di essere comunità. Insieme agli educatori si trova il modo di distrarsi con stimolanti competizioni ai fornelli, balli strampalati, sfilate di moda casual, la visione di un film, giochi e sorrisi, al di là delle difficoltà. Se sei un educatore sentirai ripetere il tuo nome come un’eco senza fine; ti devono chiedere, fare, proporre. Il tempo, inverosimilmente passa veloce, ed è tutto vitale, tutto nell’hic et nunc di una “famiglia” che si organizza per vivere al meglio, “con quello che c’è”.
Uno sguardo fuori dalla finestra, le strade desolate, i colori della primavera, esistenze sospese, l’inquietudine del vuoto e il silenzio interrotto da una sirena di autoambulanza.
Il soggiorno è l’ambiente più grande. Una zona di vita in comune, non solo uno spazio a disposizione; qui ci si concede più tempo per le relazioni, per imparare a conoscersi, accettarsi, progettare il futuro e svagarsi. È il luogo dove in chiusura di giornata si desidera, di esprimere riconoscenza, si condividono parole e momenti di riflessione. Una buonanotte “salesiana” per riprendere quel contatto essenziale con l’altro, un confronto e una rilettura dove si aggregano le diversità, gli equilibri, le fragilità e le inevitabili emozioni.
La situazione è seria ma qui, ognuno ha capito che in questo momento così difficile, c’è bisogno di unione e talvolta, ritrovarsi disorientati, spaventati e finalmente, prigionieri di quella assuefazione e superbia di cui ci eravamo nutriti, circondati e compiaciuti può essere motivo di crescita e di trasformazione in cui il “finalmente” non vuol essere irrispettoso e banale ma che ha il sapore e il sapere di un tempo nuovo e non del tanto desiderato cambiamento dove tutto rimane come prima, peggio di prima, ma dove emergono bagliori di qualità, intelligenza, lungimiranza e bellezza; riemerge chissà, la dimensione umana.
Ciò che stiamo attraversando non riguarda più gli altri, ma ognuno di noi, l’intera società.
Ci siamo ammalati tutti, anche i più altezzosi, gli invincibili, finiti in questo recinto per adattamento, noncuranza e individualismo. Il difetto non è stato e non è solo dei nostri governanti, ma il nostro e delle nostre responsabilità che sono venute meno, in un trionfo della menzogna, il rovescio che diventa verso, la conflittualità apparente e l’incoerenza, la colpa che si trasforma in regola raccomandata dai maestri di tutte le umane ossessioni dove in definitiva stiamo vivendo un lutto prepotente, diretto o indiretto, in cui non ci resta che prendere atto dell’irreversibilità della perdita e ipotizzare, nell’alternanza tra sconforto e speranza, un modo e una strategia per riprendere il controllo di un’idea di coraggio nuova, il coraggio della pazienza.
È singolare questo richiamo ad essere comunità, invocata proprio quando le relazioni diventano difficili, se non impossibili. Ciò che ci accomuna, oggi, è innanzitutto la paura, non il desiderio di condividere spazi e tempi. Una comunità, per durare, deve produrre dei rituali che la colleghino alla sua storia e che mettano in scena il legame tra i suoi membri. Una comunità fondata sul male comune, è destinata a scomparire con le prime, auspicate, guarigioni.
Ed è proprio da questa “casa speciale”, dagli occhi inquieti e lucenti di questi giovani, da una squadra di lavoro preparata, paziente e da una vera dimensione umana che mentre osservo rifletto a quando tutto questo sarà finito. Sarà allora che potremo dimostrare di avere capito quanto siamo soli e fragili. Il nostro antropocentrismo ci ha indotti sempre di più a pensare di dominare ogni cosa, fin a quando arriva un affarino invisibile, che ci mette in ginocchio. Ma sono proprio queste giornate intense, di dolore, in cui diventa necessario cogliere il senso di appartenenza, un insieme di persone che partecipano in un contesto tumultuoso ma stimolante, per condividere un piccolo frammento di quel processo rigenerativo condiviso e collettivo, indispensabile, per “sentirsi parte”. Quello di cui abbiamo bisogno è di una vera e propria rivoluzione culturale, che ci faccia sollevare il capo, per guardare al di là delle frontiere e dei confini che ci dividono. Un visus, non ha passaporto e non conosce barriere, l’unico modo per batterlo è diventare come lui, contrabbandiamo umanità, condivisione, solidarietà e giustizia. Allora sì, che potremo parlare di vera comunità.
E mentre un’altra giornata si sta chiudendo, si abbassano le luci, stanchi, ma avvolti da quella bellezza accogliente che è negli occhi degli uomini, delle donne e dei ragazzi che combattono e non si arrendono, semplicemente umani, come le persone che sanno stare in equilibrio su un piede solo, l’eleganza dei colori, quei pochi significati, l’oppure e il controvento; ecco il senso di essere comunità, le persone, anche le più difettate e fragili ma con quella leggera dignità sono infinitamente più belle, oltre ogni ipocrisia.
La mia, la Nostra consonanza che sposta il rumore; un messaggio da Harambée, un’opera Salesiana, che nasce nel 1996 a Casale Monferrato (AL) dal progetto di un gruppo di educatori come comunità alloggio socio assistenziale educativa per minori in situazioni di disagio».
Max Biglia
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