E’ l’inizio di giugno del 2002, nove mesi dopo la strage delle Torri Gemelle di Manhattan per mano di Al Qaeda. Nel Giardino delle rose della Casa Bianca, il presidente americano Bush Jr., che per fare giustizia dei terroristi ha attaccato l’Afganistan e nel 2003 attaccherà l’Iraq, invita gli israeliani e i palestinesi a cessare ogni ostilità. “Io sogno due Stati, Israele e Palestina, che convivono in pace. Ma per ottenere questa pace bisogna che tutti combattano il terrorismo, e che tutti rompano con il passato e imbocchino una nuova strada” dichiara Bush. E rivolgendosi ai palestinesi aggiunge: “Vi chiedo di eleggere leaders non coinvolti nel terrore, e di costruire una democrazia basata su libertà e tolleranza. Se lo farete, avrete il nostro appoggio”. Il presidente americano non cita nessuno, ma i presenti intuiscono a chi pensi. A un Mandela arabo, un politico come il leader nero che in Sud Africa, dopo 27 anni di carcere, ha sconfitto l’apartheid, la dittatura dei bianchi, non con le bombe e i massacri, ma con la disobbedienza civile, la resistenza passiva, l’opposizione pacifica. Un uomo che, eletto presidente, ha detto “no” alla vendetta e “sì” alla integrazione razziale, e ha saputo rassicurare e unificare una nazione divisa.
Sono passati oltre 21 anni da quel giugno, e non solo i palestinesi ma molti dei 22 Stati della Lega Araba hanno più bisogno che mai di un Mandela. I palestinesi non lo hanno trovato non solo per colpa loro, ma anche per colpa di leaders israeliani, da Sharon a Netanyahu, che hanno calpestato i loro diritti e occupato le loro terre, e hanno sfruttato il terrorismo per imporre la propria ideologia in patria e giustificare la propria violenza in Palestina. L’Europa e l’America in particolare hanno più volte tentato di mediare, sfiorando il successo con gli accordi di Oslo del 1993 su negoziati a venire, negoziati pluriennali destinati a condurre alla pace e alla formazione di due Stati. Tuttavia, eventi drammatici come l’assassinio del premier israeliano Rabin nel 1995 ad opera di un estremista ebraico e la morte in circostanze misteriose del capo palestinese Arafat nel 2004 hanno vanificato gli sforzi europei e americani. Negli ultimi venti anni la situazione è molto peggiorata. E’ certo che l’attuale guerra di Gaza, comunque e quando si concluda, segnerà sia la fine di Hamas e di altri gruppi terroristici sia la fine di governi israeliani come l’ultimo di Netanyahu, e che i successori da entrambe le parti cercheranno un compromesso. Ma nel frattempo, a Gaza il popolo palestinese paga e pagherà un prezzo spaventoso.
Hamas e i suoi alleati hanno presentato la strage degli ebrei, israeliani e non, del 7 ottobre come un atto di “decolonizzazione” della Palestina dai “colonialisti”, per fare sì che tutti i Paesi arabi identifichino nelle loro vittime dei bianchi e degli occidentali, oltre che dei cristiani, ossia degli stranieri e degli infedeli da sterminare. E’ un falso storico, perché la civiltà ebraica è una civiltà mediorientale, non europea, nata e formata nelle terre oggi contese, e le sue comunità sono riuscite spesso a convivere con quelle arabe, ora tollerandosi a vicenda ora collaborando realmente. Inoltre la storia della decolonizzazione, una delle conseguenze più positive della Seconda guerra mondiale, è assai più una storia di rivoluzioni pacifiche e di guerriglia contro obbiettivi militari che non una storia di attacchi terroristici e di massacri di civili. Ha vissuto capitoli feroci, in Algeria a esempio, ma altrove in Medio oriente la decolonizzazione è avvenuta senza bagni di sangue, e gli Stati arabi, quelli moderati soprattutto che ben lo sanno, dovrebbero intraprendere lo stesso percorso su Israele con un loro Mandela. La condizione dei palestinesi sotto Israele non è molto dissimile da quella dei neri sotto l’apartheid sudafricana.
Ricordiamo la storia della decolonizzazione. Essa non è legata a sanguinari dittatori ma alle due figure più importanti delle lotte anticoloniali dello scorso secolo, non a caso pacifiste entrambe, Mahatma Gandhi, che conquistò l’indipendenza per l’India nel 1950, e Nelson Mandela, appunto, che la conquistò per il Sud Africa negli Anni Novanta. Gandhi fece capire a tutto il mondo ciò che significa democrazia, o “people’s power” come la chiamano gli americani: è il potere popolare, che si batte per la giustizia e l’eguaglianza non con l’odio e lo sterminio ma con la disobbedienza civile, la resistenza passiva di massa, la difesa dei diritti umani, gli scioperi, le riforme. Mandela lo ha imitato e il loro modello è stato seguito per qualche tempo nei diversi continenti, anche in Medio Oriente, dove tuttavia è stato abbandonato all’avvento del messianismo islamico armato verso la fine degli Anni Settanta. Non è vero che questo messianismo o fondamentalismo imperi nell’intero mondo dell’Islam, ma dove non lo fa lo ricatta con il terrorismo. A muoverne le fila sono l’Iran e le formazioni terroristiche come Hezbollah in Libano e Hamas in Palestina, da esso e da altri Paesi musulmani finanziate e addestrate.
Su Hamas c’è in Europa e specialmente in Italia un equivoco di fondo. Hamas non rappresenta Gaza né la Palestina, e non ha fatto il suo bene ma il suo male. Ne ha assunto il controllo nel 2006 in elezioni falsate da assassinii, ricatti e corruzioni degli oppositori, e vi ha instaurato una dittatura inamovibile. Nel 2007, ha scatenato una guerra civile contro lo schieramento moderato di Al Fatah, costringendone il capo Abu Mazen a trasferirsi in Cisgiordania. Si calcola che da allora tra gli aiuti benintenzionati dell’Europa, dell’America e delle Istituzioni internazionali e gli aiuti malintenzionati dell’Iran e compagnia, Hamas abbia ricevuto oltre 2 miliardi di dollari o euro all’anno. Se bene amministrati, in quindici anni quei miliardi avrebbero trasformato Gaza in una piccola potenza industriale e commerciale a beneficio della popolazione palestinese, oggi ridotta alla miseria. Sono invece stati usati per comprare e produrre missili, costruire bunker e gallerie sotterrane in funzione di una guerra che avrebbe distrutto Israele, e per erigere su di essi ospedali e scuole per malati e per bambini da usare come scudi umani. Non è propaganda israeliana, sono cose simili a quelle che io vidi nelle guerre dell’Iraq del 1991 e del 2003.
Se al posto di Hamas un Mandela avesse governato Gaza, o anche soltanto qualche Paese arabo moderato, si sarebbero evitate la strage del 7 ottobre e l’odierna spietata reazione di Israele? In quindici anni, si sarebbe compiuto un passo avanti verso trattative di pace? Ritengo di sì, ma solo se anche Israele avesse eletto premier dei Mandela al posto dei Sharon e dei Netanyau, leaders che hanno violato la libertà dei palestinesi e che li hanno provocati e umiliati con gli insediamenti in Cisgiordania, la costruzione di un muro equivalente a quello di Berlino e via di seguito. Hamas non ha giustificazioni per il suo operato, le dimostrazioni in Italia a suo favore sono un abominio, come le manifestazioni di antisemitismo. Ma Israele non ha giustificazioni per la distruzione di Gaza, e le dimostrazioni in Italia a favore dei palestinesi innocenti sono un secco monito. Israele non ha solo il diritto di difendersi ha anche il diritto di eliminare Hamas, ma può riuscirci con altri mezzi e in tempi più lunghi di quelli programmati. Le pressioni per la formazione di corridoi umanitari, per l’adozione di pause nei combattimenti e per l’assistenza alla popolazione aumentano di giorno in giorno. E’ nell’interesse suo e del Medio Oriente non lasciarle inascoltate.
I governi arabi moderati condannano all’unanimità l’offensiva di Israele a Gaza e la maggioranza di essi appoggia Hamas. Ma con poche eccezioni lo appoggia solo a parole perché vede in Hamas una minaccia altresì alla propria sopravvivenza. I governi arabi moderati concordano segretamente con Israele sull’urgenza di fermare la radicalizzazione dell’Islamismo, che ha fatto della teocrazia una dittatura. A differenza dell’Iran e di suoi alleati come la Siria, l’Iraq e lo Yemen, essi non soffiano sul fuoco, sperano anzi che Hamas esca dal conflitto irrimediabilmente indebolito. Dai primi sondaggi, lo spera anche la maggioranza dei palestinesi a Gaza, che auspica un armistizio e trattative di pace il più presto possibile. E’ l’obbiettivo a cui l’Europa e l’America stanno lavorando, un obbiettivo che richiede l’impegno di tutte le democrazie anche fuori del Medio Oriente e del Golfo persico. Come nel XX secolo il colonialismo fu sconfitto, sebbene a volte si ripresenti sotto mentite spoglie, quelle finanziarie per prime, così nel XXI secolo sarà sconfitto il fanatismo religioso. Lo richiede la comune umanità di tutti i popoli, di qualsiasi colore, razza e fede.
C’è da chiedersi perché e come l’eredità di Gandhi, che consentì la metamorfosi dell’Impero inglese nella comunità delle ex colonie, il Commonwealth, e di Mandela, che assurse a modello per i governanti africani di buona volontà, sia andata dispersa. Chi avrebbe mai immaginato che dieci, quindici anni dopo il crollo dell’”Impero del male” come il presidente americano Reagan battezzò l’Urss, ne sarebbe sorto un altro, molto meno coeso ma anche molto più imprevedibile e quindi più pericoloso, l’Impero del terrorismo? L’Occidente e il mondo cristiano avrebbero potuto prevenirlo aiutando i Paesi in via di sviluppo e instillando in essi i valori di Gandhi e di Mandela, ma non lo hanno fatto. Per questo ci troviamo alle prese con una crisi peggiore di quella degli Anni Ottanta. Allora, l’incubo dell’Olocausto atomico rese possibile a Reagan e al presidente sovietico Gorbaciov porre fine alla Guerra fredda. Ma sebbene oggi il presidente russo Putin lo rievochi per costringere l’Ucraina alla resa, esso non è più un credibile stimolo alla pace, perché nessuno oserebbe usare armi nucleari. L’Impero del terrorismo non negozia, in quanto si considera incaricato da Allah dell’eliminazione del nemico.
Quasi sempre, la gioventù di tutto il mondo è dalla parte degli oppressi, in questo caso i palestinesi. Ma i palestinesi non sono stati oppressi solo da Israele bensì anche dal terrorismo islamico. Come Netanyau così Hamas non ha il consenso popolare. L’enorme differenza è che gli israeliani possono sbarazzarsi da soli di Netanyahu, mentre i palestinesi non possono sbarazzarsi da soli di Hamas. I giovani ne prendano atto, anche in Italia, e non trasformino il loro sostegno ai palestinesi in ostilità a Israele e soprattutto agli ebrei. La loro generazione è chiamata a spegnere ogni fiammata di antisemitismo, oltre che di terrorismo, e ad adoprarsi per un nuovo ordine in Medio Oriente e nel Golfo Persico. Un discorso che vale anche per la Russia e per l’Ucraina, incatenate a una guerra che come quella di Gaza ci riporta agli infausti Anni Venti e Trenta del secolo passato, gli “Anni ruggenti” di tanti film di Hollywood, ma infestati di conflitti simili agli attuali.
Ennio Caretto