Il 4 aprile 2008, al Settantesimo anniversario della Nato, Vladimir Putin e George Bush Jr. discutono per l’ennesima volta dell’Ucraina. “Che cosa è l’Ucraina?” tuona a un certo punto Putin. “Devi capire George che non è nemmeno uno Stato. Una parte dei suoi territori si trovano nell’Europa Orientale, ma l’altra parte, la maggiore, è un regalo che le abbiamo fatto noi”, un’allusione al Donbass e alla Crimea, che verranno poi annessi con le armi alla Russia dal Cremlino. Per Robert Gates, il ministro della Difesa ed ex capo della Cia, che partecipa al colloquio, non c’è dubbio: “Putin – bisbiglia a Bush – non rinuncerà mai a quella che chiama la Nuova o la Piccola Russia, la parte russofona o russofila dell’Ucraina”. Ma Bush non demorde. “Vladimir – ribatte -, l’Ucraina è una nazione indipendente di cui vi siete impegnati a rispettare le frontiere”. E’ la stessa posizione che il suo successore Barak Obama e Joe Biden, il di lui vicepresidente (e attuale presidente degli Stati Uniti), assumeranno e manterranno sino a oggi.
Inizialmente, ciò non impedirà a Obama, che appena eletto viene insignito del Nobel della pace più che altro per le sue buone intenzioni, di promuovere il disgelo con il Cremlino. Anche il suo Segretario di stato, Hillary Clinton, la moglie dell’ex presidente Bill Clinton, si adopra per la ripresa del dialogo tra Washington e Mosca. Quest’ultima riapre il suo spazio aereo agli americani nella interminabile Guerra dell’Afghanistan e nel 2010 le due Superpotenze firmano il Nuovo Trattato Start per la riduzione degli armamenti atomici. Sarebbe il momento adatto di negoziare sull’Ucraina, non solo si eviterebbe oltre un decennio di probabili guerre, attentati, crisi economiche, ma le speranze di un compromesso sarebbero anche più concrete di quelli oggi. Attualmente, grazie alle parziali aperture del presidente ucraino Zelensly, si profila per la prima volta la possibilità di un armistizio (parlare di pace è prematuro). L’occasione non va perduta, come il Papa Francesco ha ricordato di recente nel suo discorso sui doveri della “Gran Madre Russia”. Ma Putin rimane più che mai imprevedibile, e Washington è sempre incerta e divisa.
Forse, la Seconda guerra fredda sarebbe finita nel 2011 se Obama e Putin non si fossero trovati ai ferri corti in Medio Oriente, dove il programma americano di democratizzazione dei Paesi islamici, la “Primavera Araba”, si tradusse in un caos, con la morte di Gheddafi in Libia, con la caduta di Mubarak in Egitto e con le stragi commesse da Assad in Siria. Eventi di cui il presidente russo, che in Gheddafi, Mubarak e Assad vedeva i garanti della stabilità mediorientale e i tutori degli interessi di Mosca, responsabilizzò Obama e in particolare la signora Clinton, la “Dama bionda” come la chiamava. In risposta Hillary lo accusò di brogli elettorali definendolo “un dittatore”. I presidenti russo e americano non si parlarono per tre anni,
Stando ai documenti desecretati dalla Cia, è all’inizio del 2014, in pieno secondo mandato di Obama, che Putin decide di risolvere con la forza i contenziosi con gli Stati Uniti. A gloria della Grande Russia, Putin tiene le sue faraoniche Olimpiadi invernali a Soci come Hitler, a gloria della Germania, aveva tenuto le mega Olimpiadi naziste a Berlino nel 1936. Ma contemporaneamente invade la Crimea e scatena la Guerra del Donbass, dove sa che Washington non può intervenire senza rischiare un conflitto nucleare. Lo fa in reazione allo scoppio a Kiev poche settimane prima di una nuova rivolta contro il predominio del Cremlino, che costringerà alla fuga il presidente ucraino Janukovyc, un putiniano. E perché reagisce brutalmente? Perché gli Stati Uniti hanno aiutato i rivoltosi, comprese le destre armate, in base al principio, proclamato da Biden in visita in Ucraina, che “noi non riconosciamo le sfere d’influenza”. Putin intende vendicarsi, ma non commette l’imprudenza di sfidare Obama a Kiev, dove riconosce il governo filoamericano. Lo zar si limita a diffondere documenti che dimostrano le interferenze degli Usa.
Nell’Europa occidentale alcune potenze e una parte della pubblica opinione non nascondono la loro preoccupazione per l’operato di Washington, “un golpe” secondo il quotidiano inglese Guardian, accusa che un dirigente del Dipartimento di stato americano respinge con un’espressione volgare (gli europei vadano a farsi…). In particolare, i rapporti tra gli Stati Uniti e la Germania si fanno tesi: il cancelliere tedesco Angela Merkel, che è nata nell’ex Germania comunista e parla bene il russo, dialoga di frequente con Putin, che parla bene il tedesco, cosa sospetta per la Cia, che intercetta il suo cellulare cifrato, spiandola come se fosse un nemico, imperdonabile errore si scuserà Obama. Ma neanche a Washington manca chi è in allarme, come testimonia il rapporto presentato al Congresso, a metà del 2014, da Angela Stent, l’ex direttrice del National Intelligence Council on Russia o Consiglio nazionale di spionaggio sulla Russia.
“Con i suoi interventi militari – spiega Angela Stent – il Cremlino ci ha notificato di avere il diritto di denunciare gli accordi sugli ex territori sovietici intercorsi tra di noi dal 1992. In parole semplici vuole impedire che le ex Repubbliche sovietiche entrino nella Nato e nell’Unione Europea, e vuole che mantengano i loro legami economici e politici con la Russia… Poiché l’America non accetta che rimangano nella sua orbita, c’è il pericolo che il Cremlino non osservi più le norme di condotta che osservò ai tempi dell’Urss. Le prospettive sono inquietanti, per Putin l’Ucraina è una questione di politica interna, egli si è sicuramente chiesto se una rivoluzione arancione non possa scoppiare anche in Russia”. In altre parole, c’èil pericolo di una guerra, conclude l’esperta, che suggerisce al Congresso di sostenere l’Ucraina “ma spiegando agli americani che il Cremlino aspira a un’Ucraina neutrale, con Kiev in controllo soltanto della sua parte occidentale e Mosca in controllo di quella orientale”. Il suo consiglio: “Coordiniamoci con gli alleati europei, negoziamo con Mosca e non escludiamo una soluzione diplomatica”.
E’ troppo tardi? Non lo sapremo mai, perché nel clima di Guerra fredda che le avvolge l’America e la Russia non si sforzano di condurre trattative serie e perché nel 2015, a un anno delle elezioni presidenziali americane, si affaccia sulla scena un nuovo protagonista, il miliardario Donald Trump. Trump ha solo indiretti rapporti d’affari con Putin, ma nel 2016, quando si candida alla presidenza degli Stati Uniti per i repubblicani, ne ottiene un appoggio che si rivelerà decisivo. I motivi sono numerosi. Trump definisce Putin “un leader con cui potrei andare d’accordo”, critica la Nato perché gli europei non pagano abbastanza per la protezione americana, e sembra contrario a un intervento militare in difesa dell’Ucraina in caso di un attacco russo. Inoltre il suo stratega elettorale Paul Manafort è stato per anni al servizio del putiniano Janukovich a Kiev, e il suo consigliere Michael Flynn, un generale a riposo, ha amici tra i generali russi. Putin vede in Trump il primo presidente americano “non antirusso” e organizza una campagna diffamatoria contro Hillary Clinton, la candidata democratica, contribuendo alla sua sconfitta.
Non che durante il mandato di Trump siano rose e fiori per Putin. Tra lo zar e il presidente ucraino, l’oligarca filoamericano Petro Poroshenko, eletto nel 2014, che chiede che l’Ucraina venga associata all’Unione Europea e successivamente entri nella Nato, è un continuo braccio di ferro sul Donbass e sulla Crimea. Trump però non si schiera apertamente per Putin perché il Congresso a Washington è dalla parte di Kiev, ma lascia intendere che lo farà se sarà rieletto nel 2020, cosa che dà per certa. Putin si convince quindi che è meglio temporeggiare, anche perché nel 2019 Poroshenko è stato nettamente battuto alle elezioni ucraine da Volodymyr Zelensky, un attore acerbo di politica, che potrebbe essere più malleabile di lui. Tuttavia, le aspettative dello zar s’infrangono quando nel gennaio del 2021 Trump è costretto a lasciare la Casa Bianca, dove entra trionfalmente Joe Biden, il vice di Obama, vecchio nemico del Cremlino. E’ indubbio che in quella occasione Putin decida che solo muovendo guerra all’Ucraina ne impedirà l’ingresso nella Nato e manterrà le altre ex Repubbliche sovietiche nell’orbita russa.
E’ un errore politico e militare clamoroso. Politico, perché induce nazioni neutrali europee come la Finlandia a entrare nell’Alleanza Atlantica, isolando sempre più Mosca, e militare perché l’Ucraina, aiutata dagli armamenti e dalle tecnologie avanzate degli Stati Uniti, non solo resiste ma respinge anche le forze armate russe. Di fronte allo spettro di una disfatta, Putin si rivela un nuovo Stalin sia al fronte, commettendo le stesse stragi di civili innocenti, sia in casa, commettendo le stesse purghe dei generali e reprimendo ogni dissenso. Dallo scoppio delle ostilità nel febbraio del 2022 a oggi, i morti, i feriti, gli invalidi, tra cui donne e bambini, ammontano a oltre mezzo milione. Inutilmente il Pontefice, Francesco, invoca la pace. Dietro le quinte, le potenze coinvolte nel conflitto dialogano saltuariamente, ma le ragioni di Stato, se tali si possono chiamare, continuano a prevalere sulla sacralità della vita umana. A volte, si evoca persino l’incubo di un conflitto nucleare, come accadde ai tempi dell’Urss.
Eppure, un armistizio è possibile. Deporre le armi, creare corridoi umanitari, scambiare prigionieri e via di seguito sarebbe un primo passo verso la pace. Non comporterebbe la definizione di nuove frontiere, non deciderebbe la sorte dei territori contesi, questi problemi verrebbero affrontati in un secondo tempo. Ma un armistizio consentirebbe di salvare altre innumerevoli vite umane, unire le famiglie divise, restituire un poco di normalità all’esistenza quotidiana. E non sarebbe così difficile ottenerlo, basterebbe ad esempio che le forze amate russe cessassero gli attacchi e simultaneamente l’America e l’Europa smettessero di riarmare l’Ucraina. Non si creerebbe un’impasse, si donerebbe una pausa di riflessione sia a Mosca sia a Kiev. C’è da chiedersi perché non premano di più in tale senso su Putin e Zelensky sia l’Europa, a cui la guerra causa gravissimi danni, sia gli Stati Uniti, che hanno più influenza su entrambi.
Il centenario Henry Kissinger, il re della diplomazia, l’architetto del disgelo tra gli Usa e l’Urss negli anni Settanta, pensa che la pace sarà possibile solo se l’Ucraina accetterà una dipendenza almeno parziale della Crimea e del Donbass dalla Russia, e lo zar potrà raccontare al suo popolo di avere salvato russofoni e russofili dal nazismo, la menzogna su cui si basa il suo revisionismo dell’attuale storia patria. Altrimenti, ammonisce Kissinger, la guerra si trascinerà senza che una parte prevalga totalmente sull’altra e Putin si terrà tutti i territori già occupati e altri che potrebbe occupare ancora. Come negli anni Cinquanta nacquero due Coree, così nascerebbero due Ucraine. Per l’Occidente, aggiunge Kissinger, la conseguenza più grave di una mancata pace sarebbe che l’alleanza tra Mosca e Pechino si rafforzerebbe alterando gli equilibri mondiali.
Al momento, le mezze aperture di Zelesnky e i contatti semisegreti tra Washington e il Cremlino lasciano di nuovo adito a un’esile speranza. Ma se un armistizio non verrà firmato prima delle elezioni in America e in Ucraina l’anno prossimo, la guerra potrebbe riesplodere con inaudita violenza ed estendersi oltre i suoi attuali confini. E le elezioni del 2024, con le incognite che comportano, invece di spegnerla potrebbero alimentarla ulteriormente.
Ennio Caretto