“Parlate pure male di me, ma parlate di me”. Così diceva Sir Winston Churchill, il vincitore della Seconda Guerra mondiale, e così, sospetto, dice anche Donald Trump. Ma mentre parlare male di Churchill era difficile, parlare male di Trump, che la settimana prossima si insedierà da Presidente alla Casa bianca, è facile, visti il suo tentato golpe di quatto anni fa e le sue provocazioni attuali. Facciamo dunque questa premessa: Trump non è il nemico, per lo meno non lo è ancora. Saranno i prossimi anni a dirci se egli sia davvero la grave minaccia alla democrazia che molti di noi temono, o se sia solo un leader autoritario ma transitorio. Di sicuro, il suo esordio della settimana scorsa è stato allarmante: la politica estera da lui enunciata in Florida non poteva essere peggiore (di quella interna discorreremo in seguito). Toccherà pertanto all’Europa, l’alleata dell’America, e all’elettorato americano, che in parte diffida di lui, contenere le sue iniziative e impedire che abusi delle proprie prerogative. E ciò implicherà un dialogo serrato perché sarebbe impossibile isolare il leader della massima superpotenza di oggi. Del resto, per noi è necessario e costruttivo dialogare anche con chi ci è ostile, dal Presidente russo Putin agli Ayatollah iraniani, come dimostrato dalla liberazione di Cecilia Sala a Teheran.
Avvio con colpi di scena
Nel 1973, lo storico statunitense Arthur Schlesinger Jr. pubblicò un libro critico degli eccessi del potere esecutivo, ossia della Casa Bianca, dal titolo “La presidenza imperiale”, accusandola di ricorrere troppo spesso alla forza negli affari internazionali. E nel 2005 lo storico britannico Niall Ferguson ne pubblicò uno di denuncia dell’espansionismo non solo militare ma anche finanziario e culturale americano, “Colossus”. Il New York Times ne condivise le tesi, ribattendo tuttavia che quello di Washington è un “benign empire”, il primo impero benigno della storia. Il linguaggio e il comportamento di Trump sono certamente più da imperatore, e non benigno, che da Presidente, ma tra l’America e l’Europa, persino tra l’America e la Russia e tra l’America e la Cina, c’è una qualche interdipendenza. Inoltre egli si è impegnato a porre fine alle guerre di Gaza e dell’Ucraina con una pace forse iniqua ma suscettibile di miglioramento. Vediamo quindi cosa significhino i suoi colpi di scena della settimana scorsa: l’annuncio che sotto di lui l’America acquisterà la Groenlandia, che si riprenderà il canale di Panama, “entrambe con la forza se necessario”, che si annetterà il Canada, che cambierà il nome del Golfo del Messico in Golfo dell’America. Sono obbiettivi realizzabili, e se sì sconvolgeranno l’ordine mondiale?
“Compro la Groenlandia”
La Groenlandia. Non sarebbe la prima volta che l’America compra uno dei suoi Stati, nell’Ottocento comprò la Louisiana dalla Francia e l’Alaska dalla Russia, e il secolo passato un altro presidente, Harry Truman, accarezzò l’idea di acquistare la Groenlandia dopo la Seconda Guerra mondiale. I motivi di questo interesse per l’enorme isola, otto volte l’Italia ma con appena sessantamila abitanti, sono due: la Groenlandia, che fa molto gola anche alla Russia e alla Cina, è ricca di petrolio e altre materie prime, e il controllo militare del tratto di mare tra di essa l’Islanda e la Gran Bretagna è essenziale per fermare le loro marine e per dominare le cruciali rotte artiche. Trump afferma che gli Stati Uniti ne hanno bisogno strategicamente ed economicamente e che Mosca e Pechino intendono sottrargliela. Senonché la Groenlandia è un territorio autonomo danese e il suo governo e quello di Copenaghen rifiutano di vendergliela. Non solo: la sua integrità territoriale è garantita dall’Ue, i cui leaders, dal presidente francese Macron al cancelliere tedesco Scholz, si sono già scagliati contro Trump. E’ inconcepibile che l’America possa muovere guerra a un alleato che ospita una grande base militare della Nato a Thule. Trump ha altre opzioni, da un referendum a un trattato che escluda altre potenze dall’intera regione.
“Ridateci il Canale di Panama”
Il Canale di Panama. Purtroppo, la minaccia di riappropriarsene non è una “trumpata” o spacconata che dir si voglia. Il Canale fu costruito dall’America, che all’uopo occupò Panama al principio del secolo scorso, e fu poi consegnato dal Presidente Carter allo Stato centroamericano, nel frattempo divenuto indipendente, un lungo iter conclusosi nel 2000. Uno sbaglio perché Panama affidò i due porti d’ingresso e di uscita del canale sull’Oceano Atlantico e sull’Oceano Pacifico a due società di Hong Kong, cioè alla Cina. Esso smentisce che ci sia una presenza cinese nel canale, ma Trump, che ritiene la Cina una superpotenza nemica, teme che in una eventuale guerra fredda lo blocchi causando un danno incalcolabile ai commerci e all’economia americani. Per assurdo che sia questo paragone, Trump vede nei due porti l’analogo dei missili sovietici a Cuba nel 1961, un’intrusione che condusse il Presidente Kennedy sull’orlo di un conflitto atomico con l’Urss. Egli considera il Canale un territorio americano come il presidente cinese Xi Jinping considera Taiwan un territorio cinese e il Presidente russo Putin considera l’Ucraina un territorio russo. Se Panama, che fu invasa già dal Presidente Bush Sr. nel 1989 per deporre il dittatore Noriega, non glielo restituisse, Trump potrebbe davvero mandarvi i marines.
Dal Canada al Golfo
L’annessione del Canada “con la forza economica, non militare” come ha precisato Trump e la metamorfosi del Golfo del Messico in Golfo dell’America lasciano il tempo che trovano. Valgono quanto un’improbabile richiesta del Messico agli Usa di riavere la California che gli apparteneva e che gli fu strappata nel 1848. Trump ha disegnato una mappa dell’America e del Canada uniti nella bandiera a stelle e strisce e ha brigato per le dimissioni del premier canadese Trudeau, un suo aspro critico. Ma potrà solo ottenere maggiori concessioni e accrescere le sue interferenze, non riuscirà a fare del Canada il cinquantunesimo Stato americano. La sua spacconata è un tentativo di intimidire i due Stati limitrofi, “troppo vicini agli Usa e troppo lontani da Dio” come lamentano i messicani.
La pace in Ucraina e a Gaza
I problemi che la sua presidenza rischia di causare, oltre a quelli della Groenlandia e del Canale di Panama, sono altri, sono l’assetto di Gaza e dell’Ucraina, il suo rapporto con Putin da una parte e con Xi Jinping dall’altra, il suo atteggiamento nei confronti della Nato e dell’Ue e il ruolo di Elon Musk e degli altri fautori della tecnocrazia nel suo governo. La nostra premier Meloni ha fatto bene a dimostrarsi pronta a lavorare con lui, Trump ci riserva grosse sorprese, e occorrono interlocutori europei capaci di mediare. Sull’Ucraina Trump ha già consultato “l’amico” Putin ma non il Presidente Zelensky, segno che la sua sarà una pace putiniana, vale a dire favorevole alla Russia, se la realizzerà. E’ probabile che l’Ucraina perda parte dei suoi territori, il Donbas e la Crimea innanzitutto, e si trasformi in uno Stato cuscinetto, forse membro dell’Ue, ma che non potrà entrare nella Nato, una sconfitta per le democrazie europee. Su Gaza, Trump ha alzato la posta in gioco dando un ultimatum ad Hamas: se non libererà gli ostaggi israeliani prima del suo insediamento alla Casa Bianca, ha avvertito, “il Medio Oriente diventerà un inferno”. Il messaggio era chiaro ed era diretto anche agli Ayatollah iraniani, i grandi destabilizzatori della regione e del Golfo Persico: nel “Trumpworld”, il mondo di Trump, non ci sarà il minimo spazio per il terrorismo, l’Iran sarà costretto a smettere di alimentarlo, Israele si rafforzerà e i palestinesi dovranno adeguarsi. Presumo che il messaggio abbia contribuito alla liberazione di Cecilia Sala e che indurrà gli Ayatollah alla moderazione. Ma il cessate il fuoco trumpiano, per quanto meritevole potrà essere, non comporterà una pace duratura né un assetto stabile delle Nazioni islamiche. Finché non esisterà uno Stato della Palestina in coesistenza con lo Stato di Israele, il Medio Oriente rimarrà una polveriera.
Invasivo con l’Europa
E veniamo a noi europei. Trump ci chiede che investiamo nella nostra difesa, un eufemismo per gli acquisti delle armi americane, il cinque per cento del nostro Pil, il prodotto interno lordo, non il due per cento come decretò nel suo primo mandato. Ha inoltre reso chiaro che tratterà più con i singoli Stati dell’Ue che con l’Ue stessa, i “burocrati socialisti” di Bruxelles come li dipinge. E perché? Perché mentre sa di non potere fare a meno della Nato, che ora è un braccio armato dell’America, ha paura della concorrenza europea, sia militare sia economica, e preferirebbe disunirla, anche per facilitarne uno spostamento a destra. Trump accusa l’Europa di parassitismo ma la realtà è che gli Usa hanno sempre ostacolato i fievoli tentativi europei di creare un proprio sistema di difesa e di svilupparne le tecnologie relative. L’ennesima prova Trump la ha fornita tramite il suo alter ego, il geniale ma controverso Elon Musk, che starebbe negoziando con Meloni (che smentisce) la fornitura all’Italia della rete satellitare degli Starlink, un settore in cui siamo in pauroso ritardo. Sarà dura per la nostra premier e per i leaders che subentreranno a Scholz e a Macron trovare un equilibrio tra un tycoon invasivo come Trump e l’europeismo che ci ha sinora sorretto ma che rischia di sfaldarsi davanti alla crescita del sovranismo da un lato e del radicalismo chic dall’altro.
Al di sopra della legge
L’esito del suo processo per la sua relazione con la escort Stormy Daniels, una condanna senza pena alcuna, rafforza la tentazione di definire Trump un imperatore, tentazione a cui è meglio resistere. Una Corte Suprema di estrema destra ha stabilito che il Presidente è al di sopra della legge e che può governare anche se colpevole di uno o più reati. Sono sfregi alla democrazia e un monito a noi europei a difenderla nonostante le sue pecche.
Ennio Caretto