Sfavilla a Broadway, a New York, al Teatro Ethel Barrymore, una pièce del drammaturgo inglese Peter Morgan, l’autore de “The Crown”, La Corona, rimasta in cartello per sei stagioni. S’intitola “Patriots”, Patrioti, e concerne il rapporto tra il presidente Putin e il primo degli oligarchi russi, Boris Berezevoski, alla fine degli Anni Novanta e al principio del 2000. Attraverso esso, il dramma ci invita a riflettere sui due fattori che più inficiano la politica moderna: il culto della personalità e il ruolo dei miliardari quando il loro potere supera quello degli Stati. “Patriots” si richiama alle tragedie shakeasperiane, e come esse è un monito al suo pubblico che la libertà e gli altri diritti civili, da noi chiamati democrazia, sono in pericolo. Il tema è reso straordinariamente attuale non solo dalla guerra dell’Ucraina, ma anche dalla candidatura di Trump alla Presidenza degli Stati Uniti e dall’inarrestabile ascesa degli oligarchi Jeff Bezos di Amazon e Elon Musk della Tesla. E’ però un tema antico quanto la politica, con altri precedenti illustri in America, la quale a un certo punto, come vedremo, s’innamorò di Mussolini e del magnate dell’auto Henry Ford, grande ammiratore di Hitler. Ma in Italia, dove i partiti sembrano feudi del leader anziché espressione del loro elettorato, esso non viene sufficientemente dibattuto.
“L’ebreo dietro lo zar”
Peter Morgan non è uno storico, e talvolta mescola la verità al romanzo per rendere più efficace il suo messaggio. Ma per “Patriots” ha voluto come consulente Nina L. Kruscheva, la pronipote di Kruscev, il leader sovietico che denunciò gli orrori dello stalinismo prima di essere defenestrato nel 1964, una studiosa americana che ha conosciuto bene sia Berezevoski sia Putin, e che vede nel primo un “Kingmaker”, un creatore di re. La collaborazione della studiosa con il drammaturgo ha fatto sì che Berezevoski, che all’avvento del putinismo si definì “l’ebreo dietro lo zar”, sia il protagonista vero del dramma, un ex bambino prodigio, una star della Tv e dell’auto, l’uomo più potente e ricco del Paese che negli Anni Novanta apre a Putin il circolo di Boris Yeltsin, l’allora Presidente della Federazione Russa di cui è finanziatore e amico. La narrazione inizia da un viaggio di Berezevoski a San Pietroburgo per offrire al vice sindaco e capo della sicurezza Putin una lussuosa Mercedes in cambio della esclusiva di un Salone di rivendite, ma questi è in apparenza incorruttibile e si rifiuta dicendo di essere troppo affezionato alla vecchia Zaporozhets dei genitori. L’incidente di percorso non impedisce tuttavia ai due di frequentarsi, anche perché Putin vuole raggiungere il Cremlino, e Berezevoski lo aiuta in tutti i modi.
Campione della nuova élite
Matematico, membro dell’Accademia delle Scienze, campione della nuova élite, e per un anno membro della Duma, il Parlamento, Berezevoski è tra i fondatori di “Unità”, il partito di Putin, che anche grazie a lui diventa Presidente e sfoggia subito manie di grandezza, occupando la dacia, o casa estiva, di Stalin oltre al Cremlino. Nel libero mercato inaugurato da Yeltsin, dove tra gli apprendisti sta emergendo Roman Abramovic, il futuro proprietario della squadra di calcio inglese del Chelsea, che diverrà il suo massimo concorrente, Berezevoski è noto per la sua voracità, la sua abilità nel derubare lo Stato, e la sua capacità di corrompere i politici, tutte cose che danno fastidio a Putin. Il Presidente non vuole rivali e lo isola, e il suo mentore si ribella accusandolo di abolire le riforme yeltsiniane e di sbarazzarsi con la forza dei potenziali avversari. Berezevoski, racconta “Patriots”, finisce per giudicare Putin un killer, si dimette dalla Duma e assurge a una sorta di “rivoluzionario riluttante” formando un movimento politico di opposizione. Da consigliere e faccendiere di Putin passa così a suo nemico e probabile vittima. Quando nel 2000 capisce di avere i giorni contati, si trasferisce di colpo a Londra, dove otterrà asilo politico nel 2003 e dove accrescerà i suoi interessi petroliferi insieme con Abramovic.
Litvinenko e Abramovic
In “Patriots” compaiono altri due personaggi importanti nella storia del culto della personalità e della oligarchia in Russia, Alexander Litvinenko e appunto Abramovic. Litvinenko è un agente del Fsb, il servizio segreto russo, successore del famigerato Kgb sovietico. Ha indagato su un attentato a Berezevoski nel 1998 e ha scoperto che era stato organizzato dai suoi superiori. Ha anche appreso che un’ondata di attacchi terroristici nel 1999 era stata ordita per promuovere l’elezione di Putin, il principe della sicurezza, a Presidente. Come Berezevoski, Litvinenko, che sa di rischiare la morte, si rifugia a Londra e diventa un pericolo per lo zar, “un capo mafia” lo chiama. Quando nel 2006 la giornalista russa Anna Politkovskaya viene assassinata, l’ex agente addita Putin come il mandante. Verrà ucciso pochi mesi dopo da un isotopo radioattivo, il Polonium 210, iniettatogli da uno dei suoi ex colleghi. Al contrario Roman Abramovic farà fortuna a scapito di Berezevosky, che nel 2011 lo querelerà e perderà la causa. L’anno dopo, mentre l’ex “ebreo dietro lo zar” verrà trovato impiccato nel bagno di casa sua, probabilmente un altro assassinio del Fsb, Abramovic gli subentrerà come l’oligarca simbolo. Il fatto che lo sia tuttora induce a pensare che egli abbia stretto rapporti più che buoni con Putin, sebbene lo neghi.
Super oligarca
Non è chiaro perché Peter Morgan abbia intitolato “Patriots” quest’allegoria della lotta per il potere tra il Frankenstein degli oligarchi e il despota spietato. Forse perché sia l’uno sia l’altro voleva la “Grande Madre Russia” sognata da tutti i nazionalisti e populisti, ma modellata in modo opposto, il primo come un libero mercato abbiamo detto, il secondo come una fortezza arcigna, lo vediamo oggi. Sul palcoscenico, Putin sputa rabbia contro Berezevosky, che ha finanziato la “Rivoluzione arancione” dell’Ucraina contro la Russia, “la patria che proclama di amare”, gli rinfaccia di averla tradita e di averne complottato la decadenza, di essere stufo della sua perfidia e dei suoi crimini. Ma la verità è che Putin è diventato anche il super oligarca, l’uomo più ricco del Paese, e in quanto tale gode non solo del culto della personalità ma anche dell’ammirazione popolare per le ricchezze smisurate da lui raccolte. Sotto di lui, la maggioranza degli oligarchi faranno una brutta fine, con poche eccezioni. Misteriosamente, ad esempio, a dicembre del 2013 Putin grazierà dopo dieci anni di carcere Mikhail Khodorkovsky, il padre del gigante petrolifero Yukos, che verrà subito sciolto, e il fondatore nel 2003 di “Russia aperta”, un movimento per una società civile. Come Berezevoski, Khodorkovsky se ne andrà a Londra.
Trump affascinato da Putin
Secondo Nina Kruscheva, in America Putin ha molti ammiratori tra i politici, il primo dei quali e’ Trump, come ne ha in Europa, a partire dall’ungherese Orban. La pronipote di Kruscev ritiene che Trump sia affascinato dal padrone del Cremlino, lo consideri il massimo statista del secolo, e aspiri a governare come lui. Nel Kgb, dove raggiunse il grado di colonnello, spiega, Putin era incaricato di reclutare spie perché era un leader carismatico “in grado di sedurre gente più di chiunque altro”, e ne attribuisce il successo a questa dote “grazie alla quale conquistò anche parecchi intellettuali” e alla sua sistematica eliminazione di ogni possibile avversario. Aggiunge che Trump, che sotto alcuni aspetti gli è simile, pensa altresì di essere al di sopra dei governi tradizionali “perché così ragiona un oligarca”. Ma la simbiosi tra il potere politico e il potere finanziario, termina Nina Krusceva, è estremamente pericolosa, al pari del culto della personalità. Una osservazione che ha le sue radici nella storia europea della prima metà del secolo passato, dominata da dittatori come Hitler e Stalin, Mussolini e Franco. E purtroppo, una tentazione ricorrente nei partiti di oggi che, ripetiamo, anche in Italia paiono impegnati più alla ricerca dell’uomo o della donna forte che alla osservanza delle istanze dell’elettorato.
Elezioni Usa spartiacque
Uno dei motivi per cui le elezioni presidenziali americane del prossimo autunno potrebbero essere uno spartiacque è proprio questo. In America, il culto della personalità è sempre stato vivo nei mondi più diversi, dal cinema alla canzone, dalla moda allo sport, dagli affari alla politica. Ogni dicembre, la rivista Time metteva in copertina l’effigie della “Persona dell’anno”, e talora, quando essa era straniera, si trattava dell’oligarca o del dittatore europei più popolare tra gli americani. Il primo, nel 1923, fu Benito Mussolini, “l’uomo del futuro”, il secondo dieci anni dopo fu Hitler, il terzo nel 1939 fu Stalin, che bissò nel 1943. Per qualche tempo il Duce passò per un modello di premier da seguire, e quando l’Italia giunse seconda alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, una canzone esaltò i nostri atleti come i “Mussolini’s boys”. Ma nonostante questo vizio del culto della personalità, l’America non ha mai eletto Presidente un miliardario o despota. Qualche miliardario ci provò, come negli Anni Trenta Henry Ford, che teneva la foto di Hitler nel suo suo studio, e come negli Anni Novanta il bizzarro texano Ross Perot, ma tutti furono sconfitti. Se a novembre Trump venisse eletto Presidente sarebbe la fine di un’epoca, la democrazia americana potrebbe degenerare in una quasi dittatura putiniana.
Negazione della democrazia
Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che l’oligarchia e il culto della personalità sono la negazione totale della democrazia. Entrambi si basano sulla sopraffazione spacciandola per concorrenza, sul monopolio spacciandolo per concentrazione, sulla restrizione dei diritti umani e civili spacciandola per sicurezza. Democrazia significa potere del popolo, potere che alle elezioni esso trasferisce ai propri rappresentanti. Ma l’oligarca il potere lo compra con la corruzione e il leader col culto della personalità lo conquista con la forza. Nel 2021, l’autorevole rivista inglese The Economist studiò la politica di 167 Paesi e concluse che 21 di essi erano democrazie piene e 53 altri erano democrazie imperfette, ossia che solo il 45 per cento della popolazione godeva almeno in parte dei diritti umani e civili. In quale gruppo si trovava l’Italia? Manco a dirlo in quello dei 53, sia pure ai primi posti.
Ennio Caretto