Sulle elezioni parlamentari europee di giugno e sulle elezioni presidenziali americane di novembre potrebbero influire quest’anno anche questioni di politica estera come la Guerra di Israele e quella dell’Ucraina. Ma è più probabile che a condizionarne l’esito siano questioni di politica interna, non tanto economiche, sebbene in America si affermi che “ovunque la gente vota con le tasche”, quanto sociali. E una delle più gravi questioni sociali, in Europa come in America, è quella dei migranti, vittime di tragedie che dall’Asia all’Africa all’Occidente si moltiplicano a migliaia di giorno in giorno, più che in molte guerre. Tutti vorremmo risolvere umanamente questa questione, ma finora non ne siamo stati capaci: sì, abbiamo accolto molti migranti ma spesso sfruttandoli, e non sempre li abbiamo integrati. Non solo, ma con il passare degli anni la percentuale degli europei e degli americani che considerano i migranti degli indesiderabili se non degli invasori è aumentata. Come ha notato amaramente il nostro ex premier Romani Prodi, “chi picchia sui migranti vince le elezioni”.
Muri metaforici e non
Contro di essi, in tutto il mondo sono stati o vengono eretti muri simili a quelli di Berlino, vedasi quello di oltre settecento chilometri tra gli Stati Uniti e i il Messico, o metaforici, vedasi il Ruanda in Africa, dove i migranti restano bloccati in attesa di essere selezionati per l’ingresso in Inghilterra.
Barriere “esternalizzate”
Poiché erigere muraglie come quella cinese è molto dispendioso, alcuni Paesi occidentali ricorrono a barriere di filo spinato, a campi di internamento e a isole, le meno accessibili, dove i migranti vivono parzialmente assistiti ma praticamente imprigionati. Eppure, nonostante questi e altri orrori, la tendenza oggi emergente nelle nostre democrazie è quella di “esternalizzare” le frontiere per i migranti, ossia di trasferirle a Stati terzi vicini o lontani, ritenuti affidabili e sicuri. Gli Stati Uniti, dove dal 2021 sono entrati quasi due milioni e mezzo di migranti, ma dove ne sono stati arrestati oltre sei milioni, si sono affidati al Messico, pagandolo naturalmente: là si fermano i migranti di ogni Paese e razze che fanno poi domanda di asilo o di accesso al paradiso americano, molto spesso senza riuscirvi.
Giorgia Meloni e l’Albania
L’analogo accordo della premier Giorgia Meloni con l’Albania ha suscitato polemiche furenti in Italia, ma non nel resto dell’Europa, dove incomincia a prevalere l’opinione che il modo migliore di garantire la sicurezza dei migranti sia di prevenirne le drammatiche traversate del Mediterraneo, che continuano tra alti e bassi. I cosiddetti partenariati strategici con la Mauritania e con la Tunisia, che ha ricevuto 150 milioni di euro in cambio della sua cooperazione, e la recente intesa con l’Egitto rispondono a questa logica, sebbene si tratti di Paesi con cui è difficile trattare perché spesso violano i diritti umani. Nell’Unione Europea, la maggioranza sembra puntare sul coinvolgimento di questi Stati costieri per la soluzione della crisi dei migranti, malgrado il mezzo fiasco dei primi accordi con la Turchia e con il Marocco, nonché di quello del nostro ministro Marco Minniti con la Libia nel 2017. Una strategia che non ha posto fine alle traversate del Mediterraneo ma che le ha rese più pericolose e più costose limitandole sia pure modestamente. In sostanza un palliativo, non la cura del male.
Strategia che non paga
C’è chi crede che questa strategia debba essere sorretta da ingenti aiuti per lo sviluppo economico dei Paesi donde provengono i migranti. Ma dove ciò è stato fatto i risultati sono stati miseri, di solito a causa della corruzione o dell’incompetenza delle autorità locali. In numerosi casi, gli aiuti si sono rivelati addirittura controproducenti, in Sudan ad esempio sono serviti a opposte fazioni per acquistare armi, facendo scoppiare una nuova guerra civile. Allo stesso modo, il rimedio forse più sollecitato dal pubblico, la lotta ai mercanti di esseri umani, non ha inciso sul problema. In Europa, il traffico è rimasto nelle mani degli scafisti e dei funzionari, burocrati e militari più corrotti, in America nelle mani dei “narcos”, gli spacciatori di droghe. E sebbene in Italia se ne parli poco, in altre parti del mondo, specialmente in Asia e in Africa, sono i migranti stessi a sfidare la morte su barche a remi in viaggi su acque infide. Tipico è il caso della Isola di Ferro (El Hierro) nelle Canarie spagnole, che viene raggiunta dai migranti su piroghe, non motoscafi, dal Gambia, dalla Mauritania, dal Mali o dal Senegal.
La Francia e Mayotte
Trovare una soluzione sarebbe più facile se le democrazie occidentali si dimostrassero solidali l’una con l’altra. Ma succede il contrario, perché in maggioranza esse procedono su strade separate da muri metaforici. Prendiamo la Francia, che sui migranti (e altro) ama darci ogni tanto una lezione. Essa amministra l’isola di Mayotte, un Dipartimento francese d’oltremare situato tra il Madagascar e il Mozambico nel vasto arcipelago delle Comore. Mayotte era la meta preferita non soltanto dei migranti della zona ma anche dei migranti dalla Somalia e dai Grandi laghi africani, soprattutto delle donne incinte perché vi vigeva il “jus soli”: chi vi nasceva era cittadino francese, e quindi aveva accesso in Francia con la propria famiglia. Che cosa ha fatto Gerald Darmain, il ministro degli Interni francese, per respingere questa “invasione”, come la ha chiamata? Ha soppresso il “jus soli” e il ricongiungimento familiare e ha limitato i permessi di soggiorno per ridurre dell’80 per cento i migranti. D’ora innanzi da Mayotte potrà entrare in Francia solo chi possiede di già la cittadinanza francese.
Mari di morte
Con un linguaggio churchilliano, il ministro ha quindi ammonito gli Stati interessati che alzerà “un cortina di ferro nell’acqua” e se necessario dispiegherà la Marina militare francese con droni marini al largo della Tanzania. Probabilmente è una minaccia che non attuerà mai, ma purtroppo la sua condotta non ha nulla di strano. I governi che respingono i migranti, che non li salvano negli oceani e nei mari in tempesta, che non li proteggono dai pirati e da altri predatori sono molto più numerosi di quelli che li accolgono, vanno al loro soccorso e li difendono. Noi italiani consideriamo il Mare Mediterraneo “il mare della morte” dei migranti, e a volte ci colpevolizziamo per non essere riusciti a impedire che divenisse tale, ma di mari della morte ancora peggiori ce ne sono dappertutto nel mondo. In questo secolo dei Muri, insanguinato da guerre come quelle dell’Ucraina e di Israele, la tragedia umanitaria dei migranti è la più feroce e duratura. Secondo la Banca Mondiale, in queste migrazioni muoiono ogni anno poco meno o poco più di novemila persone, in maggioranza donne, e molti bambini.
Ostacoli alle Nazioni unite
La causa principale delle migrazioni è la tremenda povertà di alcuni popoli, altre cause sono le guerre e le persecuzioni politiche. In tutto il mondo si contano oltre 300 milioni di migranti, quasi la popolazione degli Stati Uniti, di cui tra 170 e 180 milioni si sono messi in moto l’anno scorso. Il fenomeno è globale e la soluzione deve essere globale. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per gli immigrati sta facendo il possibile, ma ha mezzi limitati e in pratica è ostacolato da alcuni dei Paesi che dovrebbero aiutarlo. C’è bisogno di una politica dei migranti con grandi risorse finanziarie e con un personale numeroso e ben preparato che investa nelle aree depresse e che vi combatta la corruzione. Che crei e controlli corridoi umanitari come accade nelle guerre, fornendo ai migranti i necessari mezzi di trasporto e la necessaria assistenza. E che li inserisca equamente nei Paesi dove essi possono iniziare una nuova vita. Le potenze economiche, le democrazie occidentali e gli Stati arabi ricchi innanzitutto hanno l’obbligo morale di unirsi e lavorare assieme a questo scopo invece di murarsi contro di esso.
Ennio Caretto