CASALE – Vengono dal Mali, dalla Costa d’Avorio e dal Sudan. Rimangono in Italia per pochi mesi o pochi anni. La maggior parte di loro è ancora in attesa di conoscere il proprio destino. Sono un gruppo di migranti sbarcati sulle spiagge italiane e mentre la giustizia decide se possono rimanere nel paese, loro stanno studiando e giocando a rugby. A Casale Monferrato, in Piemonte, nel Nord d’Italia c’è una squadra di rugby molto speciale, talmente speciale che ha obbligato la Federazione Italiana ha cambiare le regole per cui, il campionato di Serie C permette soltanto un giocatore straniero per squadra. Nella squadra de “Le Tre Rose” sono gli italiani quelli che si possono contare sulle dita di una mano. Poi ci sono Malesi, Ivoriani, un Rumeno e un Argentino. Questa è una squadra di rugby che è soprattutto un progetto di integrazione.
Negli spogliatoi vengono parlate diverse lingue e c’è chi traduce le parole del capitano simultaneamente in inglese e in francese. Parecchi giocatori hanno scoperto il rugby soltanto pochi mesi fa, ma la passione e il desiderio di fare bene rompe anche le barriere linguistiche.
PARI OPPORTUNITA’
Il fondatore di questo progetto è Paolo Pensa, presidente de “Le Tre Rose” Rugby. Con lui collabora Mirella Ruo, che fornisce alloggio e assistenza agli immigrati 24 ore al giorno. Tre volte a settimana i due insieme con una manciata di volontari portano i giocatori a Casale Monferrato, così come a Frinco, Valenza e Roncaglia, per la sessione di allenamenti serali e la domenica mattina alla partita.
“E’ un lavoro impegnativo perché i ragazzi non sono sempre puntuali ed è un tour de force riunirli tutti” sorride la Ruo, fingendo di lamentarsi, sebbene lei tratti i ragazzi come fossero i suoi figli.
Mbemba Couòibaly, Traure Modibo, Adatti Bright e Sana Siriki sono alcuni degli immigrati che sono ospitati nel progetto e che si ritrovano su un campo da rugby. Quasi tutti sono arrivati in Italia pochi mesi fa. Qualcuno già parla italiano, mentre altri ancora lottano per comprendersi l’uno l’altro e devono passare dall’Italiano al Francese, una situazione piuttosto difficile in allenamento. Ma l’allenatore sta facendo un ottimo lavoro con un gruppo di ragazzi che, sino a pochi mesi fa, non aveva mai visto una palla da rugby.
“Mi piace giocare, mi fa sentire libero perché loro ci insegnano le regole, che sono applicate a tutti” spiega Youssef Syla. “Il mio sogno è sempre stato quello di essere un atleta professionista. Ma ho 25 anni quindi forse è un tantino tardi. Nel mio Paese, la Costa d’Avorio, ero un meccanico. È stata dura lasciare tutto ma non ho avuto scelta.”
Siriki, anche lui arrivato dalla Costa d’Avorio, confessa di percepire molto razzismo intorno a lui – ma non sul campo da rugby. “Vedo come mi guardano le persone quando salgo sull’autobus o cammino per la città,” dice. “Non è colpa mia se sono qui. Ma nella squadra siamo tutti uguali: bianchi e neri. Poi, alla fine della partita, mangiamo tutti insieme con i nostri avversari. La vita di tutti i giorni dovrebbe essere così.”
IL GIOCO DELL’ATTESA
Essendo fuggiti dalla guerra o dalla povertà, le storie di questi uomini sono simili, ma ognuno di loro ha una storia personale che ha lasciato le cicatrici: “Adesso sto studiando Italiano, vado a scuola e poi mi alleno e gioco a rugby.” Dice Coulibaly della sua vita attuale. “Sto aspettando di completare i documenti per un permesso di soggiorno, poi, quando avrò imparato bene l’italiano, mi piacerebbe lavorare in un ristorante.”
Questo è il suo sogno, il suo futuro, sebbene nei suoi momenti di inattività cerchi di mantenere i suoi contatti con il Mali e con quelli che ha lasciato lì. “Sono venuto via da solo. Sono passato dal Mali all’Algeria poi alla Libia. Da lì sono arrivato in Italia lo scorso settembre. Nel mio tempo libero, quando posso, vado su Facebook. Mi piace molto.” Gli amici di Facebook che ha qui in Italia o lì in Mali? “Mali, Mali,” dice, sorridendo.
Rugby, scuola e incertezze. Per i ragazzi de “Le Tre Rose” la vita scorre tra lezioni di italiano, allenamento, palestra, rugby e calcio, ma la gran parte di questa trascorre nell’attesa di sapere se otterranno il permesso di soggiorno. “In media ci vogliono otto mesi per scoprirlo ma se viene rifiutato, puoi fare appello. Sfortunatamente il tribunale respinge praticamente tutti e questo significa che i ragazzi rimangono qui per circa due anni prima di avere una risposta definitiva,” spiega Ruo.
E cosa succede dopo? “Poi se ne vanno in Francia, Germania o Belgio, sperando che andrà meglio di come è andata qui. Quelli che lì già conoscono qualcuno e hanno un possibile lavoro, vanno in Belgio; in Francia o in Germania devono sperare in Dio,” ci spiega lei.
Lo sport è cruciale per loro perché l’integrazione è difficile e non solo per questioni di razzismo. A scuola, certamente, incontrano persone come loro – studenti che frequentano le lezioni di italiano per stranieri – e fuori dalla scuola gli unici “amici” italiani che hanno sono i volontari, che sono molto più grandi. Le relazioni con i ragazzi e le ragazze della loro stessa età in realtà non esistono, quindi il rugby è l’unica possibilità per incontrare loro coetanei, per scambiarsi esperienze e storie.
UNA LUNGA STRADA
Queste storie sono simili a quelle di Ali Abubakar. Il diciannovenne non ha ancora fatto il suo debutto con la squadra senior, gioca invece con il secondo XV, ma a differenza di molti dei suoi futuri compagni di squadra, la sua richiesta è stata accettata. Lui è così contento che mostra orgogliosamente il documento che attesta che può restare in Italia. E quando gli si chiede di raccontare la sua storia, lui sorride tristemente e dice che è meglio sedersi perché richiederà un po’ di tempo.
“Sono nato in Sudan e sono arrivato qui in Italia l’11 Aprile 2014. Quando ho lasciato il Sudan ero molto giovane. Avevo cinque anni quando è morto mio padre. Sono andato in Chad, con mio fratello e sua madre, perché io non ho mai conosciuto la mia. Siamo stati lì per due anni ma il Paese era devastato dalla guerra e quindi siamo partiti per la Nigeria, dove siamo rimasti per cinque o sei anni,” dice Ali.
“La nostra vita era difficile, molto difficile. C’era solo la madre di mio fratello che lavorava, guadagnava soldi ma non c’era molto lavoro da fare. Non avevamo cibo e non c’erano scuole. E così, nel 2013, abbiamo lasciato la nostra casa e siamo andati a Niger e da lì in macchina fino in Libia. È stato un viaggio di 25 giorni con poco cibo e poca acqua.”
Ma per Ali non era ancora finita la strada: il peggio doveva ancora arrivare. “In Libia, la guerra stava andando avanti andando avanti e c’è una tribù, i Tubu, che sono considerati “neri”. Noi siamo neri e parliamo Arabo come loro e i Libanesi, quelli con le lunghe barbe, ci chiamano “Tubu” e avevamo paura che ci avrebbero ucciso. Mio fratello lavorava come meccanico e io studiavo, ma un giorno lui è stato arrestato e messo in prigione per un mese. È stato poi rilasciato ma molti neri sono stati catturati, messi in prigione e uccisi. Quindi abbiamo deciso di scappare in Italia.”
E’ stato un viaggio infermale, quello: “Ci hanno detto che cera una nave che andava in Italia, ma dovevamo pagare e non avevamo soldi. Non sapevamo cosa fare, ma poi abbiamo notato che nel momento dell’imbarco, molte persone salivano sulla barca senza pagare. Non so chi abbia pagato e chi no ma noi siamo saltati. Siamo rimasti in mare per cinque giorni e cinque notti, senza acqua e cibo, io ho perso i sensi. Quando sono arrivato in Italia sono dovuto rimanere qualche giorno in ospedale”. Quel viaggio traumatico è parte del passato e in questi giorni Ali è in grado di apprezzare il presente e guardare al futuro. “Adesso la mattina lavoro come magazziniere. Ho uno stage di sei mesi e spero di poter rimanere alla fine del periodo. Il pomeriggio vado a scuola e la sera faccio teatro – mi hanno detto che sono un bravo attore – e la domenica gioco a rugby”. Lo sport dà speranza in mezzo all’incertezza.