Dopo tre anni di Presidenza, il settantaquattrenne Presidente degli Stati Uniti Donald Trump che era certo di avere a ottobre la riconferma in tasca per un altro mandato, mostra la sua fragilità di gigante dai piedi d’argilla.
Aveva conquistato il consenso negli strati meno acculturati del Paese a colpi di slogan e di tweet, basati su assiomi populistici e sovranisti tipo “l’America prima di tutto” senza proporre soluzioni ma indicando colpevoli individuati via via negli stranieri, nei migranti, nei disperati dei Paesi poveri, nei negri. Certamente solleticando le parti più retrive del Paese a stelle e strisce, ma mostrando la sua ignoranza culturale e incapacità politica, col successo risultante da un produttore televisivo capacissimo di marketing ma limitato ai piccoli cabotaggi e privo di una “weltanschauung”, la visione del mondo che un leader mondiale dovrebbe avere e lui non ce l’ha.
La mancanza di un’ideologia gabellata per pragmatismo, la volubilità dei rapporti internazionali schizofrenici che fanno del nemico numero uno dopo poche settimane l’amico del cuore, la guerra commerciale che sacrifica alleati e amici strategici a risultati effimeri a fini elettorali, l’alleanza con nazioni canaglie come l’Arabia Saudita alla fine non pagano.
L’America è ora in fiamme dopo l’assassinio di un negro. Il razzismo che non è stato superato, la sofferenza dei poveri e degli emarginati, hanno aperto un vaso di Pandora che riporta a oltre cinquant’anni fa, all’assassinio di Martin Luther King.
Ma allora c’erano i Kennedy col sogno delle “nuove frontiere” e adesso c’è Trump con slogan e muri.
Ritorni la buona politica, ritorni la speranza.
p.b.