Sarebbe una fortuna per tutto il mondo, e in particolare per l’Europa, che stenta a fari sentire da entrambi, se entro cinque o sei anni il vertice della settimana scorsa a San Francisco tra il presidente americano Joe Biden e il presidente cinese Xi Jinping passasse alla storia come quello del 1985 a Ginevra tra il presidente americano Ronald Reagan e il presidente sovietico Michail Gorbaciov, un vertice che segnò l’inizio della fine della Guerra fredda tra due superpotenze che avevano sfiorato l’olocausto nucleare. E’ più probabile tuttavia che il summit di Biden e di Jinping, il secondo in un anno, non sia stato altrettanto epocale, ma abbia comunque aperto un lungo e difficile dialogo che darà i suoi frutti in prosieguo di tempo, come il summit del 1973, sempre in California, tra il presidente americano Richard Nixon e il presidente sovietico Leonid Breznev, un summit che inaugurò il cosiddetto disgelo, un processo ultraventennale di riavvicinamento tra Washington e Mosca. Era forse il massimo che si potesse sperare, dato che dal 2020 Washington e Pechino si trovavano su una rotta di collisione resa di recente più pericolosa dal loro confronto aereo, semi armato, su Taiwan.
Accordi bilaterali
Indubbiamente, il disgelo era l’obbiettivo prefissosi sia da Biden sia da Jinping dopo il fiasco del loro primo vertice a Bali nel novembre del 2022. I due leaders ne hanno gettato le basi, per ora fragili, con alcuni accordi bilaterali, da un moderato rilancio dei commerci e degli investimenti reciproci all’impegno della Cina di bloccare l’invio e il traffico negli Usa del mortale oppioide sintetico Fentanyl, e soprattutto con la ripresa delle comunicazioni e delle consultazioni tra gli Stati Maggiori delle loro forze armate. Ma mentre la sostanza del vertice è stata modesta, la sua forma è stata spettacolare, in particolare da parte di Jinping. Il presidente cinese ha fornito un torrente di rassicurazioni a Biden e a quattrocento finanzieri e industriali accorsi ad ascoltarlo. “Voltarsi le spalle non è per noi un’opzione, la nostra è la relazione bilaterale più importante al mondo… La Cina è pronta a essere socia e amica dell’America”. E ancora: “La terra è grande abbastanza per ospitare entrambi i nostri Paesi… Noi intendiamo assumerci pesanti responsabilità per i nostri due popoli, per il mondo e per la storia”.
Alcuni media hanno battezzato le aperture di Jinping “la diplomazia dei panda” dalla sua promessa di prestare di nuovo all’America questi preziosi animali, da lui richiamati in Cina alcuni anni fa, un riferimento alla “diplomazia del ping pong” di Nixon all’inizio degli Anni settanta, quando l’allora presidente americano si servì di un torneo di quello sport per avviare il dialogo con Pechino. Ma la differenza dei motivi delle due diplomazie è profonda: mezzo secolo fa, Nixon prese l’iniziativa per prevenire una stretta alleanza tra la Cina e l’Urss, adesso Jinping l’ha presa per ottenere il riconoscimento che la Cina è l’unica altra superpotenza, ben sapendo che in quanto tale ha bisogno di rapporti costruttivi con l’America per la propria crescita. Lo hanno spinto a farlo non solo le crisi internazionali, la Guerra dell’Ucraina e la Guerra di Gaza in testa, ma anche i problemi interni, dalla bolla dell’edilizia alla disoccupazione giovanile, e le tensioni del Partito, con il licenziamento dei ministri degli Esteri e della Difesa. La sua iniziativa ha l’appoggio popolare: da un sondaggio, i cinesi che considerano l’America nemica sono scesi al 50 per cento e quelli che vogliono gestire meglio i rapporti con essa sono saliti al 75 per cento.
La gaffe di Biden
La gaffe di Biden, che ha definito Jinping “un dittatore”, non sembra di tale gravità da ostacolare il disgelo. I due leaders si conoscono dal 2012, quando Jinping, in veste di vicepresidente (sarebbe divenuto presidente l’anno successivo) visitò il presidente americano Obama, di cui Biden era il vice. Nel corso di oltre un decennio inoltre, Biden e Jinping hanno tenuto incontri per un totale di oltre 80 ore. Tra di essi non si è però creato il feeling, il clima di fiducia, che facilitò i negoziati tra Reagan e Gorbaciov. E Jinping è molto diverso dall’ex presidente sovietico, ha ravvivato in parte il culto della personalità ed esercita il potere alla maniera di Mao Tse Tung, il padre fondatore della Cina comunista. Non è un riformista come Deng Xiaoping, che dal 1978 al 1992 mise fine all’isolamento della Cina, e ne fece una potenza economica. E’ chiaro che mira a una convivenza pacifica con l’America, ma non è chiaro se nel senso che ciascuna superpotenza avrà la propria sfera d’influenza e non interferirà in quella dell’altra, o nel senso che esse collaboreranno alla pace e alla stabilità mondiale.
Xi e i regimi antiamericani
Il principio di disgelo con l’America non impedirà sicuramente a Jinping di rafforzare la propria sfera di influenza, creata con i Brics, ossia la Russia, i giganti emergenti e i regimi antiamericani come l’Iran, e con poderose iniziative economiche e finanziarie specialmente in Asia e in Africa. Ciò comporta il rischio che si formino daccapo due blocchi rivali, se non nemici come gli Usa e l’Urss ai tempi della Guerra fredda, uno occidentale l’altro orientale, divisi non più dall’ideologia ma dalla cultura e dalla geopolitica. Il fatto che al vertice di San Francisco Biden e Jinping si siano concentrati quasi esclusivamente sulle relazioni bilaterali e non abbiano preso posizione sulla Guerra dell’Ucraina e sulla Guerra di Gaza suscita il sospetto che il presidente cinese passerebbe dal disgelo alla collaborazione su queste e altre bollenti questioni internazionali solo se Taiwan si unisse alla Cina, un tema su cui ha insistito. Al riguardo, infatti, Jinping ha dichiarato che Pechino “non intende entrare in guerra con nessuno” ma non ha escluso il ricorso alle armi se qualcuno tentasse di tenerle separate con la forza.
Come procederà il disgelo tra l’America e la Cina dipenderà anche da alcuni prossimi eventi, in primo luogo le elezioni a Taiwan a gennaio e quelle americane a novembre del 2024, oltre che dalle guerre dell’Ucraina e di Gaza. A Taiwan è prevista la vittoria del candidato del Kuomintang, il più propenso a dialogare con Pechino, cosa che segnerebbe una svolta positiva, ma sull’America pesano allarmanti interrogativi. Spaccata in due più ancora dell’Italia a causa della sua crisi economica e sociale, la superpotenza pare contraria sia alla candidatura alla presidenza di Biden, ritenuto troppo anziano, sia a quella dell’ex presidente Trump, alle prese con quattro processi, uno dei quali per l’assalto al Congresso del 6 gennaio del 2021 per mano dei suoi seguaci, un tentativo di colpo di stato. Non solo: i repubblicani, che controllano il Congresso, sono paradossalmente più ostili alla Cina che non alla Russia, come lo stesso Trump, che ha legami occulti con il presidente russo Putin. Se ci fossero ripercussioni negative per Pechino, e nel frattempo continuassero le guerre di Gaza e dell’Ucraina, sarebbe quasi impossibile raggiungere la pace e la stabilità di cui ha bisogno il mondo intero.
La Ue a Pechino
Ciò conferisce particolare importanza alla visita della Presidente della Commissione dell’Ue Ursula Von der Leyen e del presidente del Consiglio Europeo Charles Michel a Pechino il 7 e 8 dicembre venturi. L’Europa non è un interlocutore secondario per Jinping, è un mercato più ampio e in qualche settore tecnologicamente più avanzato di quello americano, un concorrente con cui è più facile concludere accordi che con l’America, nonostante dissapori come quello sulla “Via della seta” un suo strumento di penetrazione in Occidente. Il presidente cinese è consapevole che per poter lavorare con Bruxelles non basta che egli cerchi la distensione con Washington, occorre anche che assuma una funzione moderatrice sulla Russia e sui Paesi arabi, le cui vicende pesano soprattutto su una Ue ancora debole. Malgrado la sua reticenza, Jinping dovrà contribuire in qualche modo alla soluzione dei conflitti ucraino e palestinese. Sinora, pur schierandosi a parole per la Russia e la Palestina, egli non ha solo evitato di aiutarle militarmente, si è anche adoprato dietro le quinte per impedire che i conflitti si estendessero.
Nel 2009, Barak Obama, il primo presidente nero della storia americana, eletto l’anno prima, annunciò che la sua politica estera si sarebbe imperniata sulla Cina, definendola “il pivot”, il giocatore chiave delle relazioni internazionali, un termine della pallacanestro, il suo sport preferito. Un errore che lo indusse a trascurare la Russia, dove la Guerra Fredda stava risuscitando, e il Medio Oriente, dove egli sognava una “primavera araba” e dove si susseguirono al contrario bagni di sangue. Errore dovuto all’ossessione del Pentagono e della Cia, i militari e gli 007, che nel giro di dieci, quindici anni la Cina assurgesse a superpotenza atomica, una superpotenza aggressiva, e facesse di questo secolo un “secolo cinese”. Obama fu costretto a cambiare strada, Russia e Medio Oriente lo impegnarono a fondo, ma la Cina non ne approfittò. Un segnale che questo potrebbe e dovrebbe essere ancora un “secolo americano” come quello scorso, perché il divario tecnologico tra Washington e Pechino rimane grande, e perché l’Alleanza Atlantica ha i mezzi per rimanere l’ago della bilancia delle relazioni internazionali.
Bipolarismo Usa-Cina
Il vertice tra Biden e Jinping della settimana scorsa ha tuttavia dimostrato che Pechino è destinata a diventare davvero l’interlocutrice privilegiata di Washington e a dare vita a un nuovo bipolarismo. Nel precedente bipolarismo, Mosca progettò a più riprese, addirittura con Putin fino al 2020, il “decoupling”, la graduale separazione dell’Europa dall’America. L’Europa deve stare attenta che la Cina di Jinping non nutra piani analoghi, e deve coordinarsi con l’America nel negoziare con essa. L’Ue non può diventare il classico vaso di coccio tra due vasi di ferro. Nonostante le nostre carenze e le nostre pecche, noi europei abbiamo i valori e le democrazie più avanzati del mondo. Non dimentichiamoci del detto del premier britannico Harold McMillan all’avvento del kennedismo in America nei primi Anni sessanta: “Dobbiamo essere per l’America l’equivalente della Grecia per l’antica Roma”. I portatori, in altre parole, di una cultura umanistica tollerante e unificante, a beneficio di tutti i popoli.
Ennio Caretto