CASALE – Sarà ricordato con una solenne celebrazione di suffragio presieduta da Mons. Vescovo e concelebrata dagli antichi discepoli don Porta e don Busto lunedì 16 alle 19 nella chiesa di San Paolo nel 25° anniversario della morte Mons. Oreste Minazzi, luminosa figura di sacerdote che come aveva scolpito con una espressione folgorante nell’omelia del funerale Mons. Carlo Cavalla, è stato in tutta la sua vita “in contemplazione della carità”. Nato a Occimiano nel 1915, morì a Casale nella sua abitazione in vicolo Caravadossi il 4 gennaio 1989 all’età di 73 anni. Vocazione adulta, dopo esser stato cappellano a Frassineto, fu incaricato dal Vescovo Mons. Angrisani alla colossale opera di assistenza appena terminata la guerra. Responsabile prima della Pontificia Commissione di Assistenza, diventata poi Opera Diocesana di Assistenza, procurò e distribuì a migliaia di bisognosi cibo e aiuti di ogni tipo. Intorno a lui centinaia di volontari e collaboratori. Organizzò l’accoglienza ai reduci di guerra, gli aiuti ai disoccupati, poi agli alluvionati del Polesine del 1951, e ancora, colonie estive, scuole professionali, istituti per l’educazione di ragazzi poveri, istituzioni per handicappati, malati psichici, persone anziane. Ha gestito a nome della Chiesa tutta l’assistenza verso migliaia di persone, sempre animando le opere con una carità intensa, profonda, vissuta con tutta la sua anima generosa nutrita di preghiera e di colloquio continuo con Dio e di affetto e vicinanza con tutto il prossimo. Gli sono passati tra le mani miliardi di lire ed è sempre stato povero. Quando è morto aveva qualche milione da parte, residuo della sua pensioncina di cappellano della Casa di Riposo. Lasciò tutto ai suoi ragazzi, i “buoni figli” per cui aveva fatto due case Famiglia e che portava ogni domenica al campo di calcio per vedere le partite e a cui d’estate in montagna a Ca’ di Janzo faceva fare ogni giorno una bella passeggiata fino al bar della frazione di Sant’Antonio e poi pagava a tutti il gelato. Ma ai suoi “ragazzi” monsignore dava non solo l’affetto, ma soprattutto la consapevolezza di essere amati e considerati come persone in pienezza. Memorabili le sue gite e pellegrinaggi con loro a Lourdes, in Terrasanta, a Parigi, a Roma…; e a chi gli diceva: “Ma monsignore, perché tanta fatica, cosa vuole che capiscano, li portasse ben da Casale a Balzola…” rispondeva deciso: “Sono persone come le altre e vedete come sono contenti!”. Intanto aveva fatto entrare nella squadra due sacerdoti più giovani: don Porta e don Busto. Seguiva la spiritualità dei Foyeur, gli piaceva andare a vedere cosa si faceva per i poveri in Francia, Svizzera o altre parti d’Italia. Nominato ancor giovane monsignore, non indossò mai le insegne. Canonico della Cattedrale, anche ammalato, era fedelissimo alla preghiera. Nel 1972 il Vescovo lo incaricò di fondare la Caritas Diocesana e si impegnò con entusiasmo, ma il cuore non resse ed ebbe un difficile intervento al cuore. Guarito, delegò sempre più le attività a don Busto per la Caritas e a don Porta per l’Opera Diocesana di Assistenza, essendo sempre “il capo”, la guida carismatica, quello che si confrontava sempre col Vangelo, che ogni giorno in una mezz’ora di adorazione in San Filippo traeva forza ed idee audaci. Ricordo di un fannullone che ogni giorno andava da lui per avere una raccomandazione per carpire una pensione di invalidità. Gli spiegava che raccomandare per una cosa ingiusta voleva dire favorire uno che si conosceva e danneggiare quelli che non si conoscevano. Poi, per metter fine alle insistenze gli disse: “Vieni domani che ti raccomando”. E l’indomani al postulante speranzoso disse: “Sono stato mezz’ora in chiesa in adorazione e ti ho raccomandato a Dio. Adesso sei nelle sue mani”. E lo congedò. Poi, mi pare nel 1985 l’inizio di un male da cui non guarì: un cancro all’intestino. Combattè come un leone, operazioni, chemioterapie. Scherzava dicendo: ”Devo mangiare per due, per me e per il mio ospite abusivo”. Poi, nell’autunno del 1988 capì che era arrivato alla fine e non andò più nell’ufficio in via Pinelli. Disse una cosa semplicissima: “Adesso devo prepararmi al grande incontro con Dio: al resto ci pensano i miei collaboratori”. Pochi giorni prima che morisse, ero ancora andato a trovarlo e mi misi a piangere. E fu lui a consolarmi: “Non essere triste, sai, vado in Paradiso”. Questo era don Minazzi.
paolo busto