CASALE – Sarà pronunciata mercoledì 7 giugno la sentenza della corte di Assise di Novara del processo Eternit Bis.
Pubblichiamo un intervento ripreso dal blog di Silvana Mossano (www.silmos.it).
SILVANA MOSSANO
Mercoledì 7 giugno è una data che entrerà nella storia della collettività casalese, ma anche della comunità mondiale su cui ancora incombe la tragedia dell’amianto.
È attesa, in Corte d’Assise a Novara, la sentenza del processo Eternit Bis, il cui imputato Stephan Schmidheiny è accusato dell’omicidio volontario, con dolo eventuale, di 392 persone vissute a Casale e dintorni, morte a causa dell’amianto.
Il verdetto chiude un percorso di 41 udienze (la quarantaduesima è quella di mercoledì), che si sono svolte per due anni esatti, a partire dal 9 giugno 2021.
Che verdetto ci si può attendere?
È stato un procedimento complesso e delicato in cui la scienza, epidemiologica e medica, ha svolto un ruolo preponderante. Studi e tesi scientifiche sono entrati nelle aule giudiziarie e, nel corso degli anni, hanno spinto la giurisprudenza verso orientamenti anche contrapposti. Per cui non facciamo previsioni, ma proviamo a illustrare, nel modo più semplificato possibile, un quadro di possibilità.
Ci limitiamo a tre scenari che potrebbero tuttavia non essere così netti, ma integrati con decisioni differenziate a seconda dei singoli casi clinici.
Prima ipotesi. La Corte d’Assise accoglie la richiesta dei pubblici ministeri (condivisa e sostenuta dalle parti civili) e condanna l’imputato per omicidio doloso. Questa la richiesta dei pm Gianfranco Colace e Mariagiovanna Compare: «Voglia la Corte d’Assise dichiarare l’imputato Stephan Schmidheiny responsabile del reato di omicidio plurimo e pluriaggravato. Il quadro complessivo ci impone di chiedere la pena all’ergastolo, con isolamento diurno». L’isolamento diurno è una sorta di «ergastolo aggravato»: una pena accessoria inflitta a chi ha commesso un reato per il quale la pena dell’ergastolo non è ritenuta congrua. La Corte potrebbe anche riconoscere risarcimenti (da definire in separate cause civili) o provvisionali immediatamente esecutive in favore delle parti lese costituite.
Seconda ipotesi. La Corte d’Assise riconosce la responsabilità dell’imputato, ma non a titolo di dolo, bensì di colpa. Quindi riqualifica il reato da omicidio volontario con dolo eventuale in omicidio colposo (con l’aggravante della colpa cosciente, come è avvenuto a Napoli per i morti Eternit di Bagnoli). In questo caso, una parte dei 392 casi di morte risulterebbe prescritta. Si tratta di capire quante parti lese conserverebbero il diritto (in base alla data del decesso) a essere risarcite.
Terza ipotesi. La Corte non accoglie la richiesta dei pubblici ministeri, bensì quella dei difensori Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva: «Non ci fu né dolo né colpa nella condotta dell’imputato. Chiediamo che il signor Schmidheiny sia assolto perché il fatto non sussiste per mancanza della prova sul nesso di causalità. In subordine, che sia assolto perché il fatto non costituisce reato». Gli stessi difensori hanno ipotizzato un’assoluzione per mancanza di prova: è quella che, nel Codice di procedura penale, è sancita dall’articolo 530 comma 2°, cui il giudice si richiama quando ritiene che lo svolgimento del dibattimento non abbia consentito di raggiungere una dimostrazione certa di responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio. E, nell’incertezza, appunto, assolve.
Questo è un riassunto molto semplificato delle prospettive di sentenza che oscillano tra colpevolezza e innocenza.
LE CERTEZZE OGGETTIVE
Chi ha ascoltato ore e ore di testimonianze e ha visto produrre innumerevoli documenti ha acquisito alcune certezze inequivocabili.
- la fibra di amianto causa il mesotelioma. Si sono fatte indagini sull’ipotesi di una predisposizione genetica, ma è stato assodato che, quand’anche questa predisposizione ci fosse nell’individuo (peraltro in nessuno dei 392 casi del processo è stata riscontrata), il mesotelioma non si sviluppa se non c’è esposizione alla fibra d’amianto;
- l’imputato conosceva la pericolosità cancerogena dell’amianto fin da quando aveva assunto il comando dell’Eternit (in cui già operava perché era uno dei due rami industriali di cui si occupava la famiglia Schmidheiny da decenni): al convegno di Neuss, nel 1976, Schmidheiny lo aveva spiegato chiaramente ai suoi più alti dirigenti, facendoli rimanere – parole sue – «choccati», ma raccomandandosi al contempo di «non lasciarsi prendere dal panico», perché la faccenda andava gestita in modo da non interrompere la produzione;
- l’imputato ha disposto e pianificato per anni, con l’aiuto di esperti di comunicazione, una propaganda finalizzata a minimizzare, mistificare e celare (ai lavoratori, ai loro famigliari, ai sindacalisti, ai politici, ai giornalisti) i reali pericoli dell’amianto di cui lui era, invece, a conoscenza;
- l’imputato, a un certo punto, aveva ipotizzato di sostituire l’amianto con un materiale alternativo (e aveva fatto balenare questa prospettiva a sindacati e politici locali, tenendoli a lungo sulla corda), ma, quando i concorrenti più piccoli avevano glissato rispetto alla proposta perché ritenuta poco remunerativa, lui stesso aveva continuato la produzione come prima, per non perdere la propria consistente fetta di mercato italiano;
- l’imputato, sospesa l’attività nel 1986, ha abbandonato lo stabilimento casalese che, esposto al degrado delle intemperie e del tempo, ha incrementato in misura esponenziale la sua pericolosità: per anni una bomba a cielo aperto, con rilascio lento e costante di fibre, senza protezioni, fino a quando la collettività, a proprie spese, si è accollata l’onere della complessa e costosa bonifica;
- oltre alla fabbrica, sono stati abbandonati l’area ex Piemontese (dove, a lungo, si era svolta l’attività di frantumazione degli scarti all’aperto con ampia diffusione di fibre tra le case: ricordiamo che l’Eternit distava esattamente 1276 metri dal Duomo, cuore della città), la spiaggetta sul Po (che si era formata con gli sversamenti delle acque reflue inquinate di amianto), la discarica (anche questa vicino al fiume), gli ex Magazzini in piazza d’Armi (a ridosso del centro cittadino);
- i sindaci casalesi che si sono succeduti dal 1986 a oggi hanno testimoniato di non aver mai ricevuto dall’imputato, o da qualche suo emissario, l’offerta di farsi carico o di contribuire (materialmente o finanziariamente) alle bonifiche;
- né gli amministratori pubblici né i cittadini (di Casale e dei Comuni circostanti) sono mai stati informati sul pericolo rappresentato dall’uso improprio di materiali come polverino e scarti, e sulla necessità, qualora già impiegati, di rimuoverli o mettere i luoghi in sicurezza. Anzi, dall’Eternit sono sempre stare diramate rassicurazioni sull’amianto.
I DUBBI SOLLEVATI DALLA DIFESA
Ma, allora, sulla base di quali argomenti i difensori hanno chiesto l’assoluzione del loro assistito? Hanno sollevato dubbi circa la fondatezza delle tesi scientifiche su cui è stato incardinato e motivato l’impianto accusatorio. Focalizziamo i principali.
1° dubbio: le 392 vittime elencate nel capo d’imputazione (63 ex lavoratori dello stabilimento e 329 cittadini che hanno subito l’esposizione ambientale) si sono ammalate e sono morte tutte per mesotelioma? Per i consulenti dell’accusa e per quelli delle parti civili (che hanno esaminato le cartelle cliniche) sì, sono tutti mesoteliomi. I consulenti della difesa, invece, ne hanno classificati alcuni certi, altri solo possibili o probabili. Ma se non erano mesoteliomi (come diagnosticati, a suo tempo, dagli oncologi curanti e poi confermati dai ct della procura e delle parti civili), allora di che patologie si sarebbe trattato? Secondo i consulenti della difesa, avrebbero potuto essere metastasi di altri tumori che, però, non hanno né indagato né accertato, ma solo genericamente supposto;
2° dubbio: quand’anche si tratti inequivocabilmente di diagnosi di mesotelioma, come si fa ad affermare con certezza che quella persona si è ammalata respirando fibre d’amianto proprio nel periodo compreso tra il 1976 e il 1986, quando il gestore dell’Eternit era Schmidheiny? Il confronto tesissimo riguarda il momento di innesco della malattia nell’organismo (secondo la difesa, associato, esclusivamente, alle prime esposizioni alla fibra) e al ruolo che le esposizioni successive hanno sul processo di cancerogenesi, sulla sua anticipazione e sull’accorciamento della vita. Per i ct della difesa conta solo la prima (o le prime) esposizione ai fini dello sviluppo della malattia; per i ct della procura e delle parti civili, invece, hanno un importante rilievo anche le dosi aggiuntive;
3° dubbio: l’Eternit era l’unica fonte di diffusione delle fibre? La difesa ha evidenziato che, a Casale, l’amianto era presente anche in altre aziende, o era impiegato per i cosiddetti «usi impropri» in diverse zone della città e dei paesi intorno (ossia il temibile polverino come coibente nei sottotetti o come livellante di campi da gioco e cortili, pezzi di scarto come battuto di strade…). Va opportunamente precisato, però, che soltanto l’Eternit e nessuna delle altre aziende casalesi impiegava l’amianto come materia prima e, quindi, in modo massiccio; e che dalla stessa Eternit, e non da altre ditte, provenivano il polverino e i pezzi di scarto finalizzati agli usi impropri;
Più che opporre precise tesi alternative a quelle dell’accusa, i difensori hanno fondato la loro strategia su una enumerazione di dubbi («potrebbe essere… non è escluso…»), consapevoli che i giudici si troveranno a fronteggiare l’enorme dilemma di arrivare a un convincimento finale che travalichi, appunto, ogni ragionevole dubbio.
IL VERDETTO PROCESSUALE
Tra pochi giorni sapremo quale sarà la decisione della Corte presieduta da Gianfranco Pezone, affiancato da Manuela Massino e dai sei giudici popolari.
I casalesi conservano memoria bruciante della decisione tombale che era stata percepita come uno schiaffo quando, nel 2014, la Cassazione aveva spazzato con un colpo di prescrizione la condanna pronunciata in primo grado e poi in Appello nei confronti di Schmidheiny al primo Maxiprocesso Eternit Uno: si erano sentiti dire che il diritto prevale sulla giustizia.
È difficile digerire che il diritto – sacro! – possa stazzonare e frantumare la giustizia che è l’anelito legittimo – non meno sacro! – di chi ha subito un danno: un danno grave e irrimediabile come la morte, tremendo e straziante come la perdita di una persona cara, angosciante e radicato come la paura di ammalarsi che attanaglia ogni abitante di questa collettività.
Questo è il contesto processuale. E le sentenze, quante volte lo abbiamo sentito ripetere, non si giudicano: si rispettano. La conosceremo tra pochi giorni. E la rispetteremo, con la consapevolezza che, qualunque sia l’esito, la vicenda processuale non si esaurisce, perché sono possibili altri livelli di giudizio.
IL VERDETTO ETICO
E’ stato ribadito, più e più volte, che l’arco temporale del processo Eternit Bis è circoscritto al decennio 1976-1986, quando l’imprenditore svizzero fu a capo della società: è di ciò che è avvenuto in quel periodo che l’imputato deve penalmente rispondere. In altre parole, per addivenire a un suo riconoscimento di responsabilità occorre provare che chi si è ammalato ed è morto di mesotelioma ha respirato le fibre fuoriuscite criminosamente proprio in quel lasso di tempo.
Ma qui si fa strada una riflessione. In modo speculare è vero anche che molte persone hanno realisticamente, e con assoluta certezza, respirato l’amianto che in quel decennio di attività si è diffuso a causa di condotte criminose o per non aver interrotto una produzione che i vertici dell’Eternit sapevano essere letale: molte persone, che pure non sono nominate tra le 392 del processo, si sono ammalate e morte, o sono adesso ammalate, e si ammaleranno negli anni a venire. Quanti uomini e donne (a cinquanta nuovi casi ogni anno, per diversi anni!), inconsapevoli e innocenti, hanno respirato l’amianto che ha ammorbato l’aria tra il 1976 e il 1986?
I loro nomi non sono nel capo d’imputazione e quindi processualmente ora non vengono addebitati a Stephan Schmidheiny. Ma, eticamente, Stephan Schmidheiny non potrà mai chiamarsene fuori e sentirsi innocente nei loro confronti. La polvere, tra il 1976 e il 1986, non era meno morbigena che prima o dopo quella gestione! E’ stata ugualmente letale. Quelle morti, se al momento non pesano nel procedimento penale, non possono non pesare sulla coscienza, agitare i pensieri, tormentare il sonno.
IL RISCATTO MORALE
L’unica possibilità di riscatto dalla scelleratezza e dall’orrore di questo flagello che continua a colpire persone innocenti, buone, innamorate della vita e dell’amore, e private di un avvenire, è di modificare la sorte futura, finanziando e guidando la ricerca di una cura. È l’unica via.
Faccio appello alla «giustizia riparativa». Ne ha parlato, di recente, anche Agnese Moro, a 45 anni dal ritrovamento del cadavere di suo padre, Aldo Moro, (9 maggio 1978), ucciso dalle Brigate Rosse.
La giustizia riparativa non ha a che fare con le transazioni proposte dai legali di Schmidheiny alle singole parti lese; né con quell’offerta (innominabile!) del 2011 avanzata alla municipalità casalese; e neppure con un eventuale risarcimento imposto dai giudici. Né è frutto di buonismo o di diluizione della memoria, e non è azzeramento del senso profondo di ingiustizia.
La giustizia riparativa non restituisce i morti (ingiustamente e incolpevolmente morti), non ripara gli strappi dello strascico sofferente, non colma il vuoto e l’assenza pesante (sia emotiva che pragmatica) che ha modificato e segnato chi è rimasto in vita.
Non gira pagina «per non pensarci più», ma si propone di scrivere un capitolo di rinascita.
Abbiamo bisogno di pacificazione, tutti: ne hanno bisogno le vittime (malati, morti, famigliari e amici) e ne ha bisogno chi è stato accusato di averle causate quelle vittime. E’ necessaria, ma, come scrissi in altre occasioni, qui mi ripeto: solo a un sincero e concreto ravvedimento può seguire un perdono.
Lucidamente, e umanamente, non vedo altra strada. La concretezza del pentimento sincero si configura nella terapia salvifica che solo un congruo conferimento di risorse può accelerare e ottenere, coordinato con rigore e interesse dallo stesso finanziatore.
Inoltre, ripeto quanto già scrissi precisamente il 15 marzo di un anno fa. A fronte di un rinnovato sollecito a un diretto coinvolgimento nella ricerca di una cura, Schmidheiny potrebbe domandare: «E io che cosa ne guadagno?», questa era ed è la risposta: «Guadagna sé stesso, signor Schmidheiny, senza la scorciatoia di una contropartita; guadagna la sua pace interiore che, in caso contrario, qualunque siano gli esiti dei processi (quello in corso e altri che potrebbero essere intentati) non avrà mai, finché vive. Perché si troverà sempre a fare i conti con i fantasmi di quelle persone che si sono ammalate comunque per le fibre di quel decennio 1976-1986 in cui lei era il capo assoluto dell’azienda. Ci sono state, ci sono e non si possono dimenticare. Ma c’è una occasione di riscatto».
La giustizia riparativa, indipendentemente da quel che deciderà la Corte d’Assise – che speriamo tenga conto legittimamente dei dubbi sollevati dalla difesa ma non di meno dei documenti e delle testimonianze prodotte dalla procura e delle parti civili – è il salto nobile a cui mi appello.
E, ancora, io sono parte lesa, ma non mi sono costituita parte civile per lasciare aperta una via di ravvedimento morale e umano: aspetto il suo passo, signor Schmidheiny, con la mente libera e con la mano tesa. E’ il momento atteso da anni.
NUOVI FRONTI DELLA RICERCA
Recentemente, il 24 maggio scorso, si è svolto a Torino, con molti collegamenti da remoto, un seminario in cui si è riassunto lo stato dell’arte su sorveglianza sanitaria e cura del mesotelioma. Epidemiologi e oncologi, che danni sono impegnati su questo fronte, hanno provato a rispondere alla domanda: a che punto è la ricerca?
Tra gli studi innovativi, citiamo quello che si concentra sul cosiddetto «microbioma intestinale».
Che cos’è? Il microbiota ha una funzione protettiva, agisce infatti da barriera selettiva contro la proliferazione dei batteri patogeni. In altre parole, controlla il nostro sistema immunitario ed è quindi in grado di influenzare il modo con cui un individuo reagisce a uno stimolo infiammatorio causato, ad esempio, da un tumore.
Sul microbiota (cioè sulla capacità di reagire a una infiammazione) si può intervenire modificando proprio questo tipo di reazione se risulta insufficiente o inadeguata.
Ed è qui che si concentra l’attenzione dei ricercatori.
L’obiettivo che si propongono – raffrontando le feci di persone sane, di esposti all’amianto e di malati di mesotelioma – è quello di verificare se e come sia possibile intervenire modificando, con trattamenti farmacologici, la reazione del microbiota allo sviluppo tumorale. Al seminario abbiamo sentito dire che questa è la strada del futuro. La nostra speranza è che sia un futuro molto prossimo.