Questa l’omelia pronunciata dal Legato pontificio cardinale Pietro Parolin al pontificale per Sant’Evasio, domenica 12 novembre, durante il quale è stato anche aperto l’Anno Giubilare per il 550° di erezione della Diocesi di Casale.
Cari fratelli e sorelle,
la ricorrenza della festa liturgica del patrono Sant’Evasio e l’inizio del Giubileo per i 550 anni di erezione della Diocesi di Casale Monferrato sono una felice occasione per essere qui con voi oggi in questa chiesa cattedrale e vivere un momento di profonda
condivisione nella celebrazione dell’Eucaristia, sostenuti dalla grazia dello
Spirito.
Saluto con affetto il vostro Vescovo, mons. Gianni Sacchi, e lo ringrazio per il gentile invito a presiedere questa celebrazione. Con lui saluto tutti i presenti, le autorità civili e
militari, il venerando Capitolo della Cattedrale, l’Arciconfraternita di Sant’Evasio, i sacerdoti, le persone consacrate e l’intera comunità diocesana.
Le feste patronali risvegliano sempre la propria appartenenza storico-ecclesiale e anche la propria identità comunitaria civile. Esse celebrano, infatti, anche l’identità di una comunità e svolgono il ruolo di custodi delle tradizioni, degli usi, dei costumi di una città e di un paese.
La celebrazione dell’Eucaristia nella chiesa madre della Diocesi, la Cattedrale, poi, contribuisce a confermare questa identità con il messaggio della Parola di Dio e l’esempio della vita dei Santi. Affidare la propria comunità ad un Santo vuol dire chiederne la costante protezione e seguirne l’esempio nella propria quotidianità.
Il significativo traguardo del 550° anniversario della Diocesi, eretta da Papa Sisto IV il 18 aprile 1474, ci ricorda inoltre che tanti altri uomini e donne hanno imitato sant’Evasio; essi ora dal cielo si uniscono misticamente al sacrificio eucaristico che celebriamo.
“La santità – ha ricordato Papa Francesco durante l’Angelus del 1° novembre scorso – è un dono offerto a tutti per una vita felice… Ma, ogni dono va accolto e porta con sé la responsabilità di una risposta, un ‘grazie’. Ma come si dice questo grazie? È un invito a impegnarsi perché non vada sprecato. Tutti i battezzati hanno ricevuto la stessa chiamata a ‘mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che abbiamo ricevuto’
(Lumen gentium, 40)”.
Oggi noi facciamo memoria del martire S. Evasio, ossia di un testimone del coraggio della fede cristiana. La meditazione sulla testimonianza dei martiri, però, non è un’esercitazione di storiografia ma un richiamo alla verifica della nostra fede in Gesù Cristo. Ed è anche un richiamo al dovere della memoria e della gratitudine. Noi dobbiamo, infatti, la nostra fede e le nostre tradizioni al sacrificio di tanti martiri che hanno versato il loro sangue nelle nostre terre.
In modo particolare, abbiamo il dovere della memoria e della gratitudine verso il primo dei martiri, Gesù Cristo, morto in croce per la nostra salvezza. La stessa gratitudine è anche per i tanti martiri dei nostri giorni.
Non possiamo dimenticare, infatti, i cristiani perseguitati in diverse parti del mondo, né coloro che condividono la sofferenza dei malati che offrono il martirio della loro immobilità al Dio della vita e della speranza.
Il nostro pensiero va, inoltre, alle consacrate e ai sacerdoti che sacrificano la loro vita per assistere coloro che sono senza tetto, senza dignità, senza lavoro, senza futuro. Il martirio, cruento ed incruento, è diffuso più di quanto la cronaca dei quotidiani non lo faccia sapere; anzi esso è “il caso serio” (Balthasar) della nostra fede.
Il ricordo del martire Evasio, allora, patrono di questa Diocesi, non è un rito celebrativo, una formalità liturgica, ma una possibilità concreta di richiamare il cuore della nostra fede.
Il messaggio delle letture che abbiamo ascoltato, con l’invito dell’apostolo Pietro a soffrire operando il bene piuttosto che facendo il male e quello di Gesù sulla persecuzione dei discepoli, interpella noi cristiani a riflettere sulla scelta tra la fedeltà alla Parola di Dio e l’ascolto ammaliante delle sirene dell’immaginario collettivo.
L’apostolo Pietro rivolgendosi ai cristiani, da poco battezzati nella capitale dell’impero romano, li invita ad essere coraggiosi testimoni della loro scelta. Scegliere di diventare cristiani in quella situazione sociale equivaleva a mettersi ai margini della società, a uscire fuori dal mondo comune e diventare oggetto di disprezzo.
“È meglio soffrire facendo il bene che facendo il male”. È meglio essere vittima che oppressore. Questa è la mentalità di Cristo che si è lasciato mettere in croce senza reagire con violenza, senza insultare quelli che lo insultavano, senza minacciare vendetta a quelli che lo condannavano ingiustamente. Cristo è morto, giusto per gli ingiusti, per ricondurci a Dio, per darci la forza di vivere bene e di sopportare ogni ingiustizia. Se amiamo davvero il Signore lo dimostriamo concretamente in questo stile di vita.
La causa della persecuzione – ricorda il vangelo – è il nome di Gesù: “Tutto questo vi faranno, a causa del mio nome”. Il mondo non riconosce Gesù perché non conosce il Padre che lo ha mandato, origine di tutta la missione. Se manca questa conoscenza di Dio, questo incontro personale, il discorso generico cristiano, anche se bello, non piace e anzi disturba. I persecutori sono stati sempre mossi da questa ignoranza di Dio: ignorano la bellezza della rivelazione, la ritengono pericolosa, per cui la combattono.
Anche in questo nostro tempo la complessità della vita richiede sempre maggiore discernimento di mente e di cuore.
Ai discepoli di Cristo non deve mancare il coraggio di dire di sì al bene e no al male, sì all’onestà e no all’inganno.
Molte sono le sfide che ci chiamano a fare scelte ardite e a dare prova di fedeltà e di coerenza. Una sfida molto importante è la ricerca di significati delle cose, quali l’amore, la sofferenza, la vita, la morte, la libertà, la giustizia.
L’esperienza ci insegna che il conseguimento del solo benessere materiale non appaga: bisogna dare un senso spirituale e morale, nonché un valore aggiunto di etica ad ogni azione che si compie. Bisogna colmare il vuoto di esemplarità cristiana ed umana nel mondo della politica, dell’economia, della cultura; infondere fiducia e creare futuro a coloro che hanno paura del rischio.
Una sfida strettamente legata alla testimonianza dei martiri è la professione della fede nella risurrezione della carne e nella vita eterna, La loro testimonianza di coraggio ci invita a rinnovare quella fede che determina il senso della vita terrena e richiede scelte coerenti e coraggiose, perché S. Paolo ci ammonisce che “se abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19).
La fede nella risurrezione ci ricorda che noi non abbiamo una dimora fissa su questa terra (Eb 13,14), ma che siamo pellegrini verso una città futura, una città eterna; che “la nostra patria è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Fil 3, 20-21).
Cari fratelli e sorelle, auguro a questa amata Chiesa casalese di vivere l’anno giubilare come un evento festoso fortemente comunitario. La Vergine Maria vi aiuti ad essere fedeli alla vostra vocazione cristiana, trasmettendo la fiaccola della vostra fede alle generazioni future. E così sia!