Minouche Sharif è la rettrice della Columbia University di New York, l’università dove è esplosa la violenta protesta studentesca contro Israele e a favore della Palestina diffusasi subito in quasi tutti gli atenei statunitensi, protesta che ha rievocato quelle epocali del 1968 e del 1972 contro la Guerra del Vietnam. E’ una illustre economista anglo americana di 62 anni, nata ad Alessandria d’Egitto da genitori musulmani, con un solido curriculum di ex vice governatrice della Banca d’Inghilterra ed ex vice presidente della Banca Mondiale, e con il titolo di Baronessa, conferitole dalla defunta Regina Elisabetta, e in quanto tale membro della Camera dei Lord a Londra. Una rettrice che con i suoi insegnamenti in Europa e in Medio Oriente ha acquisito notevole esperienza nei rapporti con gli studenti e che è sempre stata super partes. L’unica, nelle tre settimane di caos negli atenei Usa (caos che ha portato a oltre due migliaia di arresti di dimostranti, la cosiddetta “Generazione Z”), a tentare di imporre l’ordine sino dell’inizio. E’ grazie a lei, che alla fine è ricorsa alla polizia per sgombrare il campus con la forza, che la protesta sembra destinata a chetarsi, come richiesto dal Presidente Biden, almeno temporaneamente.
Fermezza contestata
La fermezza di Minouche Sharif avrebbe meritato il plauso del corpo accademico della Columbia University e un riconoscimento del Congresso (Parlamento) a Washington. La rettrice aveva evitato il peggio perché l’università era stata in parte occupata e vandalizzata, perché gruppi di giovani ebrei erano stati aggrediti da estremisti al grido di “Siamo tutti Hamas”, la milizia terrorista autrice della strage degli israeliani del 7 ottobre scorso, e perché, come sottolineato dal sindaco di New York, si era scoperto che il 30 per cento dei dimostranti non erano studenti, bensì agitatori di varie provenienze, anche straniere. Minouche Sharif invece non solo è stata denunciata alle autorità dalle associazioni studentesche, è stata anche attaccata dall’Associazione dei docenti della sua università, che ne ha chiesto le dimissioni per avere violato il primo emendamento della Costituzione che tutela la libertà di parola e manifestazione, ed è stata sottoposta a un processo mediatico dalle sinistre in quanto “antipacifista e filoisraeliana”. Analoghe reazioni si sono verificate negli altri atenei nei confronti dei rettori che ne avevano seguito l’esempio.
Antisemitismo latente
E’ così passato in secondo piano l’aspetto più inquietante della rivolta della “Generazione Z” o Generazione Gaza come la ha ribattezzata il giornalista e scrittore Federico Rampini: il suo latente antisemitismo, un fenomeno che si riscontra anche in Europa. Non c’è dubbio che le dimostrazioni a favore dei palestinesi siano incominciate per motivi morali, come giusta opposizione ai massacri commessi dal governo israeliano di Netanyahu, sia perché i perseguitati hanno diritto a una loro patria sia perché la vita umana è sacra, e che siano state pacifiche per qualche giorno. Ma esse sono poi degenerate oltre che nella violenza anche in attacchi agli ebrei, cosa sino ad ora impensabile in America, la culla della libertà di religione. L’effetto che tutto ciò sta producendo a pochi mesi dalle elezioni presidenziali è pericoloso. Da un lato per la prima volta nella loro storia gli ebrei americani si sentono minacciati, dall’altro il Paese rischia di spaccarsi in due, chi si schiera con loro e chi si schiera contro. Al Congresso, i repubblicani, legati in maggioranza a Netanyahu, strumentalizzano questa situazione: con l’appoggio di alcuni democratici hanno già approvato una legge secondo cui è antisemitismo anche “l’ostilità o la critica a Israele”.
Non è un altro 1968
Sarebbe errato vedere nel 2024 un altro 1968 e in Israele un altro Vietnam a causa della rivolta studentesca. Nel 1968 i principali moventi della protesta della generazione dei “Baby boomers”, il boom delle nascite del dopo la Seconda guerra mondiale, furono il pacifismo e il ritiro delle truppe americane dal fronte vietnamita. Qualcuno, come l’attrice Jane Fonda, identificò nei nordvietnamiti dei combattenti anticolonialisti, dunque un popolo da appoggiare, anziché degli apostoli armati del comunismo. Si trattò comunque di un problema interno su cui repubblicani e democratici finirono per trovarsi d’accordo, abbandonando il Vietnam. Le ripercussioni internazionali furono modeste, l’equilibrio dei due blocchi, comunista e capitalista, non venne alterato. Ma oggi l’appoggio della Generazione Gaza al disegno di uno Stato della Palestina minaccia di allacciarsi al disegno della distruzione dello Stato di Israele. E’ un problema globale, perché se il Medio Oriente perdesse gli attuali equilibri il danno per l’America e l’Europa sarebbe enorme. E’ la ragione per cui Biden si sta adoprando per la cessazione delle ostilità e per negoziati oltre che di pace di cooperazione tra Israele e i Paesi arabi moderati.
Risultati opposti a quelli desiderati
Secondo i media americani, la protesta studentesca filopalestinese sta producendo risultati opposti a quelli desiderati, sta spingendo cioè la maggioranza degli elettori a schierarsi per gli israeliani. Nel pubblico affiorerebbe il sospetto che la violenza negli atenei sia stata alimentata anche da attivisti nemici dell’America, islamici, russi, forse cinesi, per indebolirla. Esso sarebbe preoccupato della spaccatura del Partito democratico tra sostenitori e avversari di Israele, a cui va un apprezzato, quasi monolitico sostegno del Partito repubblicano. E’ una situazione che favorisce l’ex Presidente e golpista mancato Donald Trump, e che accresce il suo vantaggio su Biden in quasi tutti i sondaggi. Biden dovrebbe essere applaudito per il buon andamento dell’economia americana e la faticosa mediazione in Medio Oriente, e Trump dovrebbe essere condannato per le sue violazioni delle leggi e della Costituzione, ma spesso avviene l’opposto. Solo le estreme destre sostengono che in realtà Trump sia vittima di processi politici, ma anche molti repubblicani moderati credono che egli sia il leader che risolverà la disputa tra Israele e la Palestina, che porrà termine alla Guerra dell’Ucraina e che stabilirà un nuovo ordine mondiale.
Acqua al mulino di Netanyahu e Putin
E’ un tragico equivoco. Chi trarrebbe il massimo profitto da un Trump due sarebbero Netanyahu e Putin che temporeggiano in attesa delle elezioni presidenziali americane a novembre, incuranti di trascinare il Medio Oriente e l’Ucraina in altri sette mesi di sangue. Il premier israeliano sa di avere nel miliardario statunitense un alleato contro i palestinesi e il Presidente russo vede in lui l’amico e ammiratore che gli consegnerà il controllo dell’Ucraina e il possesso di suoi vasti territori. Nessuno dei due cesserà il conflitto né cambierà politica nella speranza che Biden venga scacciato dalla Casa Bianca. Trump assapora già la rivalsa (o vendetta?) su quanti sventarono il suo tentativo di golpe nel gennaio del 2020, dopo la sua sconfitta alle elezioni. Denuncia la rivolta nelle università come opera delle estreme sinistre, definisce gli studenti “provocatori prezzolati”, proclama di essere il solo “capace di salvare la patria americana”. Presenta un programma che sa di dura restaurazione, dalla deportazione degli immigrati clandestini al divieto dell’aborto, dalla revoca delle misure a protezione dell’ambiente a uno scontro con l’Europa sulla Nato, sui commerci, sulla Cina, e un altro con l’America Latina.
Fare il gioco di Trump
Torniamo alle dimostrazioni studentesche. Di certo tra gli studenti c’erano sia degli idealisti sia dei mali informati, e di certo una minoranza non di rado armata ha trascinato alla violenza una massa impreparata alla protesta. In Italia, le televisioni e i social hanno evidenziato le massicce cariche della polizia, addossando esplicitamente o implicitamente a essa la colpa degli arresti e i ferimenti, come fanno di frequente. Ma i dimostranti, alcuni dei quali mascherati, non avevano lasciato alle forze dell’ordine delle alternative, erigendo barriere e accampamenti attorno agli edifici, appiccando incendi, scontrandosi con chi li contestava, avanzando richieste inaccettabili ai rettori, bloccando i corsi, paralizzando il traffico e indisponendo i cittadini. Come ha lamentato il Washington Post, chiedendo loro di “smettere di fare il gioco di Trump”, invece di seminare il caos per attrarre di colpo l’attenzione dei media, gli studenti potevano ricorrere allo strumento usato da leader quali Gandhi in India contro il colonialismo inglese e come Mandela in Sud Africa contro l’apartheid: la pacifica disobbedienza civile, che non procede a botti ma che a lungo termine è molto più efficace perché è una bruciante spina nel fianco del potere.
L’appoggio dei docenti
Sorprende che in molte università, soprattutto negli Stati controllati dal Partito democratico, i docenti abbiano preso le parti dei dimostranti in nome della libertà d’espressione, come capitato alla Columbia. Il concetto di libertà è assoluto, dove c’è violenza non c’è libertà. E la nostra libertà, ci hanno insegnato a scuola, ha un limite: non può violare la libertà degli altri. Tutti noi possiamo esprimere liberamente le nostre opinioni, ma tutti noi dobbiamo rispettare le opinioni altrui, il terreno dove si risolvono i contrasti ideologici è la politica, non sono gli atenei. Condonare una protesta violenta è uno sbaglio, e mesi fa le rettrici di due tra le più prestigiose università degli Stati Uniti che lo fecero furono costrette a dimettersi. I loro nomi: Claudine Gay della Harvard nel Massachussets e Liz Magill della Penn nella Pennsylvania. La loro colpa: non avere espulso né adottato i più severi provvedimenti contro tutti gli studenti che invocavano un’altra intifada o insurrezione palestinese “per il genocidio degli ebrei”, invocazione che costituisce un reato. Le due rettrici furono chiamate a testimoniare al Congresso e furono censurate per non avere combattuto questo scoperto antisemitismo.
Far del male ai giovani
Una breve considerazione che concerne anche noi. Il fatto che i docenti si siano divisi sulla protesta studentesca è un segno che l’America si è estremamente polarizzata come l’Italia, e che talvolta in America l’indottrinamento si mescola all’insegnamento, come in Italia appunto. Ciò è fare del male ai nostri giovani e al loro futuro. Le università siano quello che devono essere, templi del sapere e di civiltà.
Ennio Caretto