Non c’è nulla di nuovo sotto il sole di Gaza ormai rasa al suolo, la futura Riviera del Medio Oriente di Donald Trump dove non vivranno più palestinesi, che forse si chiamerà Trumpworld, il Mondo di Trump, perché il premier israeliano Netanyahu la consegnerà all’America una volta posta fine al conflitto con Hamas, se le cose andranno come essi vogliono. Già quarant’anni fa a Washington il giudice Abraham Sofear, il legale del Dipartimento di Stato, mi diceva che un giorno invece di fare guerre Israele avrebbe comprato interi territori della Striscia e i palestinesi se ne sarebbero andati spontaneamente. Era il credo sionista, “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, quello ebreo appunto, un falso storico perché dal 1920 a Gaza pullularono gli arabi mentre gli israeliani restarono rinchiusi nella Palestina Britannica fino al 1948. Ma tra quarant’anni fa e oggi c’è una grande differenza: sotto il Presidente americano Ronald Reagan e più tardi il successore George Bush Sr, entrambi repubblicani come Trump ma da lui assai diversi, Israele potè comprare poco o nulla a Gaza perché se lo avesse fatto avrebbe perso i loro finanziamenti. Al contrario oggi Israele non ha da temere sanzioni, ha anzi tutto da guadagnare dalla consegna della Striscia a Trump e ai suoi tecnoligarchi, da Elon Musk a Jeff Bezov, che sarebbero in grado di comprare altresì la Cisgiordania, sede della Autorità palestinese.
Il “Progetto Gaza”
Il “Progetto Gaza” di Trump ha sorpreso e sconvolto il mondo, ma è difficile credere che riesca a realizzarlo. Il Presidente americano, che non dispiegherebbe truppe sulla Striscia e ne affiderebbe la sicurezza a quelle israeliane, ha ammonito l’Iran, Hamas, Hezbollah e così via che li attaccherà se interferiranno, ma non può davvero pensare che la Riviera del Medio Oriente sarebbe al riparo del terrorismo islamico. Ha inoltre contro di sé non soltanto tutte le Nazioni arabe ma anche una forte maggioranza dell’Europa e degli altri alleati dell’America, nonché istituzioni internazionali come l’Onu, per tacere del Presidente russo Putin e soprattutto di quello cinese Xi Jinping, entrambi decisi ad accrescere la loro presenza nella regione. Trump sostiene che la trasformazione di Gaza in una mega Dubai sarebbe una garanzia di pace, ma è l’opposto. Qualsiasi forma assumesse, un nuovo e più massiccio esodo palestinese dalla Striscia destabilizzerebbe ancora di più il Medio Oriente e renderebbe impossibile il cruciale accordo da lui proposto tra l’Arabia Saudita e Israele, accordo che diverrebbe l’ago della bilancia regionale. Il Presidente americano è convinto di potere persuadere la Giordania e l’Egitto ad accogliere i profughi da Gaza, Paesi che dipinge come la loro terra promessa quasi fosse un Mosè alla rovescia, ma privare i palestinesi della loro patria sarebbe pulizia etnica, un crimine contro l’umanità.
Gli affari al primo posto
A Washington i democratici dicono sprezzantemente che con questa sua “trumpata” il Presidente mira al premio Nobel della pace ed è probabilmente vero. Senonché esso non è il primo movente della sua iniziativa, come non lo è l’antislamismo che ha dimostrato e che gli ha fruttato l’infondata accusa da parte delle sinistre europee di comportarsi con i palestinesi come Hitler si comportò con gli ebrei. Trump è innanzitutto un uomo d’affari che coltiva i propri interessi privati anche quando svolge funzioni pubbliche. Dal primo mandato dal gennaio 2016 al gennaio 2021 aveva messo gli occhi su Gaza, “un lungomare di pregio” secondo il genero Jared Kushner, il marito di sua figlia Ivanka. La ricostruzione della Striscia, ridotta letteralmente in cenere da Netanyahu, gli frutterebbe ricchezze incalcolabili. Non bisogna dimenticare come Trump s’ingraziò il Cremlino dal tramonto dell’Unione Sovietica all’ascesa di Putin al potere: visitandolo ripetutamente per venire autorizzato a costruire un catena di Trump Hotel o di Trump Towers in Russia, progetto che non si concretizzò, ma che stando ad alcuni servizi segreti europei condusse a intese finanziarie personali. Sarebbe un grave errore sottovalutare la sua determinazione. Il Presidente ha dato man forte a Netanyahu nella sua uscita dal Consiglio dell’Onu per i diritti umani e ha annunciato sanzioni contro la Corte Penale Internazionale dell’Aia per aver incriminato il premier.
I palestinesi come gli indiani?
Il premio Pulitzer Nathan Thrall, che è americano ma vive a Gerusalemme, teme che i palestinesi “facciano la fine degli indiani d’America”, un tempo detti pellerossa, ossia vengano ridotti a una sparuta minoranza a Gaza. E ha ragione: se la Striscia diventasse davvero il paradiso dei nababbi, dove troverebbero spazio, se non in riserve simili a quelle del Far West statunitense nel secolo passato? Per loro Gaza sarebbe persa, si trasformerebbe in una dipendenza israelo-americana. I palestinesi hanno diritto a un proprio Stato, e se non l’otterranno il Medio Oriente non troverà mai pace. Il “Progetto Gaza” non tiene conto che tra Israele e Hamas è in corso una tregua fragilissima, che il loro atroce conflitto potrebbe riesplodere una volta terminato lo scambio degli ostaggi, che occorre un impegno preciso arabo-occidentale per legittimare di nuovo l’Autorità palestinese di Abu Mazen a reggere il suo popolo, e che l’Iran deve cessare di finanziare, di armare e di addestrare le milizie terroristiche. La politica estera trumpista ha una pecca: pretende di capovolgere la storia dei Paesi a cui è rivolta anziché incominciare da essa per arrivare a soluzioni ragionevoli. E’ urgente che l’Europa e, perché no?, financo la Russia e la Cina propizino negoziati con obbiettivi precisi, dal riconoscimento dello Stato di Israele da parte dei Paesi arabi allo scioglimento di Hamas, sino alla graduale formazione di una Palestina sotto controllo internazionale.
Media Usa indipendenti discordi
I giudizi dei media americani indipendenti (che sono ormai pochi) sulla Riviera del Medio Oriente appaiono discordi. Chi la ritiene una provocazione di Trump al mondo islamico e una pressione sui signori del petrolio del Golfo Persico affinché risolvano sia il problema palestinese sia quello dei migranti, chi un espediente per distrarre l’attenzione dei democratici dal suo assalto al “Deep State”, lo Stato Profondo, cioè al sistema istituzionale Usa, chi un monito a Bruxelles, Mosca e Pechino, un brusco “attenti, posso fare ovunque ciò che voglio”. Ma quasi tutti aggiungono che il Presidente non si lascerà impantanare in Medio Oriente, come promise nella campagna elettorale, sapendo che sarebbe il suo Vietnam, e che ridimensionerà il “Progetto Gaza” a condizione di trarne comunque grossi profitti. Stando ai media americani è la stessa tattica della guerra commerciale da lui sferrata al Canada, al Messico e alla Cina, “la più stupida della storia” ha rilevato il Wall Street Journal, il suo quotidiano preferito, evidenziando che porterebbe l’inflazione alle stelle. Dopo avere imposto dazi del 25 per cento ai primi due partners e del 10 per cento al terzo, suscitandone le ritorsioni, il Presidente li ha sospesi per un mese all’ovvio scopo di negoziare qualche accordo. E nel caso del Canada e del Messico si è già detto soddisfatto del loro impegno a bloccare migranti e narcos alle frontiere con migliaia di militari.
Non solo Gaza
Per assurdo che possa sembrare, nel campo della diplomazia non solo il “Progetto Gaza” ma anche altre iniziative di politica estera del Presidente equivalgono al “Progetto Manhattan” della bomba atomica nel campo militare durante la Seconda guerra mondiale. Sono una dimostrazione di forza senza precedenti che conduce al crollo degli equilibri internazionali esistenti, basta citare la pretesa di Trump di comprare la Groenlandia e di riprendersi il Canale di Panama se necessario con le armi, e la sua decisione di chiudere l’Usaid, l’Istituto per gli aiuti ai Paesi terzi. Ma come l’atomica non fu mai più usata dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, così dopo l’attuale stupefacente prologo Trump compratutto potrebbe venire fermato da alleanze, trattati, regolamenti ed eventi inaspettati. E in fondo, egli vuole realmente un mondo in pace, da Gaza all’Ucraina con il cui leader Zelensky avrà presto un incontro cruciale. Il mondo corre meno pericoli di quanti ne corra la democrazia americana: sotto la sua presidenza, è possibile che le guerre diminuiscano, ma è anche possibile che il sistema Usa diventi autoritario. Le sue purghe dell’Fbi, la mitica polizia federale, e della Cia, il servizio segreto, le scorribande di Elon Musk e i suoi “geni” ventenni nei vari ministeri per “verifica dei dati” di tutti i cittadini, eufemismo per schedatura, e il ricorso all’intelligenza artificiale puntano in questa direzione.
Il ruolo dell’Europa
Stupisce che in America l’opposizione a Trump non si sia organizzata per contenerne gli eccessi, inclusi quelli a venire, e che solo la magistratura tenti di arginarlo. La velocità e impunità con cui il Presidente americano sta operando in casa e fuori deve essere un campanello d’allarme per l’Europa. Frenarlo e richiamarlo al rispetto delle norme fino da ora è doveroso, e per avere successo essa deve impostare subito un dialogo serrato. Trump non è più il neofita velleitario di un decennio fa, è un politico scafato. Attendere le sue mosse senza contestarlo non con sdegno ma con proposte costruttive significa assoggettarsi a lui.
Ennio Caretto