Da anni molti di noi si chiedono se questo sarà un altro secolo americano come quello passato, o se sarà il secolo cinese, ossia se il mondo sarà governato da Washington o da Pechino. Temo che la risposta sia: né dall’uno né dall’altro. E perché? Perché, pur durante le disumane guerre di Gaza e dell’Ucraina, gli ultimi eventi dall’America alla Cina e dall’Europa al Medio Oriente ci costringono a porgerci una domanda diversa. La domanda è: questo sarà il secolo degli oligarchi o no? E se sì, segnerà l’inizio della lenta agonia della democrazia, il nostro migliore habitat politico? Non è solo la recente ascesa della controversa coppia repubblicana di Donald Trump ed Elon Musk in America a spingerci a chiedercelo. Lo è anche l’ormai trentennale potere degli oligarchi in Russia, il cui numero uno è il presidente Putin. Lo è il crescente dominio industriale e finanziario delle forze armate in Cina, una inedita mescolanza tra il Pentagono e Wall Street. E lo è il fatto che sempre più tycoon di varie nazionalità, quelli arabi in testa, hanno i loro governi nelle proprie mani e spesso interferiscono nella politica di altri Paesi.
L’alleanza Trump-Musk
Prendiamo Trump e Musk. Il mese passato il primo non sarebbe stato eletto Presidente senza l’aiuto del secondo, l’uomo più ricco del mondo, e di magnati come Timothy Mellon, erede della massima dinastia bancaria americana. Musk ha messo a disposizione di Trump le più sofisticate tecnologie di comunicazione e persuasione occulta e Mellon gli ha versato 150 milioni di dollari per la campagna elettorale, un record. Il Presidente ricambierà affidando a Musk e a Vivek Ramaswany, altro creso suo stretto alleato, il Department of government efficiency o Doge, il suo acronimo (un riferimento all’antica Repubblica veneta?), con il compito di controllare con dei fedelissimi le istituzioni, le infrastrutture e i servizi pubblici. Inebriato dal trionfo, Musk ha promesso cento milioni di dollari a Nigel Farage, il leader del partito antieuropeo inglese Reform, se “farà fuori” il premier laburista Keir Starmer, ritenuto un nemico perché vicino ai democratici. E Trump si è recato a Parigi per la riapertura della Cattedrale di Notre Dame dopo l’incendio del 2019 nel tentativo di impostare una collaborazione con la destra francese.
I precedenti negli Usa
In verità l’intrusione degli oligarchi nella politica è sempre stata una costante degli Stati Uniti. Alla fine dell’Ottocento il mitico monopolista del petrolio John Rockefeller creò uno Stato nello Stato con la sua Standard Oil e all’inizio degli Anni venti del Novecento il magnate dell’auto Henry Ford, un antisemita, aiutò la destra a conquistare la Casa Bianca e caldeggiò la causa fascista nel Paese ispirandosi a Mussolini e a Hitler. Ma gli anticorpi della democrazia americana funzionarono: la Standard Oil venne smembrata dal Parlamento nel 1911 e Ford non riscosse abbastanza consensi per candidarsi alla Presidenza. Oltre mezzo secolo più tardi, nel 1974, un altro Rockefeller, Nelson, governatore dello Stato di New York, fu nominato vicepresidente ma esercitò la carica per soli due anni, e nel 1992 il miliardario texano Ross Perot fondò il Partito riformista, ma ottenne appena il 21 per cento dei voti alle elezioni. La situazione di oggi, tuttavia, è molto diversa. In America si dice che alle urne i soldi degli oligarchi, manovrati dai Pac o Political action commettee, “votano due volte” non una come i cittadini.
Il peso del denaro
E’ la realtà. Adesso, ovunque in politica i soldi hanno un peso enormemente superiore a quello di prima e il loro impiego è sempre più sfacciato e transnazionale. Negli Stati Uniti i candidati non possono accettare finanziamenti stranieri, ma dal Medio Oriente e dall’Asia, forse anche dall’Africa, principi e sceicchi riempiono le casse dei Pac americani tramite misteriosi terzi per influire sulla Casa Bianca e sul Parlamento. A loro volta, gli oligarchi statunitensi non esitano a versare fondi a partiti clienti di Washington in ogni continente, seguendo le orme di George Soros, il banchiere di origine ungherese fondatore della Open Society, che negli anni Ottanta alimentò i movimenti di liberazione dell’Est europeo comunista dalla dittatura sovietica. Accade ancora anche in Italia, dove Putin finanzia vari media per la propaganda del Cremlino sotto falsi titoli italiani e gruppi come il Movimento russofilo internazionale e la Associazione Veneto-Russia. E dove operano noti agenti segreti dell’Fsb, il Servizio di controspionaggio federale, quali il falso giornalista Aleksej Stovbun e la serbo russa Dargana Trifkovic.
I fondi ai partiti
Rispetto ai tempi della Guerra fredda tra gli Usa e l’Urss la differenza è sostanziale perché allora erano quasi esclusivamente i governi americano e sovietico a finanziare i partiti di Paesi in bilico come l’Italia, e lo facevano per motivazioni politiche, non personali o aziendali. L’America per esempio mandava soldi alle nostre destre e alla Democrazia cristiana, e la Russia li mandava al Partito comunista e ad alcuni sindacati e cooperative di sinistra nella speranza che rimanessero o salissero al potere. Molto tempo fa potei visionare centinaia di documenti al riguardo e non trovai nomi di magnati coinvolti nell’inghippo, solo nomi di capi partito, ministri e sindacalisti che, detto per inciso, non intascavano alcunché, diversamente da quanto capita ora (non a caso siamo uno dei Paesi più corrotti d’Europa). Ancora negli anni Ottanta, sotto il Presidente repubblicano Ronald Reagan, i finanziamenti americani al sindacato polacco Solidarnosc, che insieme con papa Giovanni Paolo II ebbe un ruolo cruciale nella caduta del comunismo, venivano dalla Cia, il servizio segreto che si serviva dei sindacati come corrieri.
La “globalizzazione”
Intendiamoci. Nel corso dei secoli anche i banchieri, i petrolieri, i magnati e via dicendo tentarono molto spesso di condizionare o abbattere la democrazia foraggiando ideologie di estrema destra o appoggiando militari golpisti per ottenerne i favori e accrescere i profitti. Ma il contesto politico era più confuso e l’ambito in cui essi operavano era in prevalenza nazionale, non globale. Cento anni or sono, il globalismo era un progetto caro a leader politici come Hitler, per tacere di Stalin che aveva abbandonato subito il principio de “il comunismo in un solo Paese”, e non di oligarchi come Musk. Per nostra fortuna né Hitler né Stalin riuscirono a realizzarlo ma gli Stati Uniti si appropriarono del progetto trent’anni fa al crollo dell’Impero sovietico ribattezzandolo “globalizzazione” perché, ci spiegarono, concerneva soprattutto la finanza, l’industria, le scienze, le tecnologie, e non tanto la politica. Un escamotage, visto che la globalizzazione li ha resi anche moralmente e culturalmente l’unica superpotenza, con conseguenze non sempre positive per il resto del mondo, e che l’unico Paese in grado di sfidarli è la Cina.
La strana coppia
Torniamo su Trump e Musk. Affascinati dalla strana coppia, i media internazionali discutono se durerà o non durerà trattandosi di due “alpha males” come notano gli psicologi, maschi dominanti e narcisi incurabili. Ma che la coppia duri o non duri è una questione secondaria, Trump conserverà comunque un potere politico quasi assoluto e Musk un potere scientifico e tecnologico senza pari. La questione principale è che Musk impersona l’oligarchia, che per definizione è la nemica della democrazia, e che non sottostà a controlli né conosce freni. Per la prima volta nella nostra storia un singolo individuo ha il dominio nei campi cruciali per il futuro dell’umanità. Alludo alle sue società Neurolink e Open AI (Intelligenza artificiale aperta) che lavorano, in teoria a scopo umanitario, al collegamento del nostro cervello con le macchine pensanti. E’ un errore cercare di capire a che cosa miri veramente Musk analizzandone soltanto l’operato nei campi delle auto con la sua Tesla, dello spazio con la sua Space X, della telematica con la sua ex Twitter, della rete satellitare con la Starlink e dei trasporti super veloci con la Hyperloop.
Oltre le frontiere
In maggioranza, gli oligarchi sono autoritari e globalisti, ossia disconoscono le frontiere e quando possono scavalcano i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, vedono nel pubblico non cittadini ma utenti e consumatori. Non rappresentano che gli azionisti delle loro società, i quali non possono più spodestarli facilmente, al contrario di come avveniva una volta. Si può perciò dire che essi aspirano a un mondo post democratico e che se entrano in politica o corteggiano chi ne fa già parte è perché lo considerano un passaggio obbligato verso il futuro che preferiranno. Per ora, solo le dittature hanno preso misure contro di loro, vedasi la Cina che ne ha imprigionati o addirittura giustiziati più di uno. Le democrazie, in particolare quelle europee già esautorate in buona parte dai colossi bancari e finanziari che fanno il bello e il cattivo tempo nelle loro economie, sono rimaste passive. E’ tempo che gli elettori europei prendano coscienza del pericolo che corrono anche perché gli elettori americani non se ne sono resi conto. Le democrazie rispecchiano la volontà popolare e nessun altro sistema può sostituirle.
Stipendio miliardario
A chi lo ignori ricordo che gli azionisti della Tesla hanno assegnato a Musk uno stipendio annuo di 56 miliardi di dollari, che il Tribunale competente del Delaware, dove la Tesla ha la sede fiscale, lo ha bocciato, e che Musk ha presentato ricorso. Non c’è uomo al mondo che meriti uno stipendio di queste mostruose dimensioni e che valga 56 miliardi di dollari di più di un altro uomo, quale un povero precario che percepisca 10 mila dollari annui. L’eguaglianza degli stipendi e dei salari è impossibile, specialmente nel capitalismo, ma tutti siamo eguali davanti a Dio e alla Giustizia e come tali dobbiamo essere rispettati.
Ennio Caretto