Salvatore della patria, graziato da Dio nell’attentato subito l’anno scorso per sollevare l’America dalla decadenza e guidarla a una nuova età dell’oro. Come tale, all’inaugurazione della sua presidenza, Donald Trump si è presentato al suo popolo, nelle vesti di un moderno Mosè proteso a un’astrale terra promessa, Marte su cui, ha detto, “farò sventolare la bandiera a stelle e strisce”. Ma dopo tale sfoggio retorico ha enunciato il programma più conservatore degli ultimi cento anni. Qualche esempio. Dichiarerò l’emergenza ai confini con il Messico, ha affermato, dove schiererò i soldati, ed espellerò milioni di migranti “clandestini e malfattori”. Porrò fine al “Green deal”, i programmi ecologici e ambientali, ha aggiunto, e “trivellerò, trivellerò, perché l’America sorge sul petrolio, il suo oro liquido, ed esporterò energia in tutto il mondo”. E ancora: revocherò lo ius soli, il diritto di cittadinanza di chi nasce negli Usa, e taciterò le polemiche sul gender “perché in America ci sono solo maschi e femmine”. Infine, un impegno ad abbassare i prezzi e a ridurre le tasse, tramite anche ai dazi, ai contingentamenti delle importazioni e alla creazione di un “fisco esterno”, che, presumo, penalizzerà l’Europa. Insomma, il manifesto di un restauratore non un salvatore, un linguaggio più imperiale che presidenziale, ma salutati da un pubblico di parte con oceaniche ovazioni, al punto da chiedersi con che America dovremo trattare nel prossimo futuro.
Ma non è il nemico
Donald Trump non è il nemico, scrissi di recente, e lo ripeto. Strada facendo potrebbe moderarsi per opposizioni interne e pressioni internazionali. Molti dei cambiamenti da lui proposti sono velleitari, e non è affatto certo che raggiunga tutti i suoi obbiettivi, sebbene attualmente la maggioranza del Congresso gli sia favorevole: alcuni dei cambiamenti delle normative americane da lui annunciati, infatti, richiedono difficili emendamenti costituzionali, e a metà del suo mandato, nel novembre 2027, le elezioni parlamentari potrebbero ridimensionarlo. Il capitalismo sfrenato da lui delineato rischia inoltre di aggravare la sperequazione economico sociale di cui soffre l’America, con tragiche ripercussioni sui sistemi sanitario e pensionistico, cosa a cui singoli Stati dell’Unione sono pronti a ribellarsi. C’è comunque da aspettarsi una raffica di decreti presidenziali in aperta violazione dei diritti umani e civili, da quello che di fatto ripristinerebbe la discriminazione dei diversi a quello che equiparerebbe i narcos ai terroristi. Nel suo discorso Trump ha ribadito che si riapproprierà del Canale di Panama, “Paese che ci ha tradito consegnando i porti d’ingresso alla Cina”, e che d’ora innanzi il Golfo del Messico si chiamerà il Golfo d’America. Ma ha anche garantito che porrà fine alle guerre in corso e che non si lascerà coinvolgere in altre, rivendicando il merito della tregua a Gaza e della liberazione dei primi ostaggi israeliani. L’impressione prevalente quindi è che la sua presidenza danneggerà più gli americani che non noi europei.
Cerimonia fastosa
Nel corso dei decenni, assistetti al giuramento di dieci Presidenti, una fastosa cerimonia ereditata dalla Gran Bretagna e paragonabile a un’incoronazione a Londra, come se i Presidenti fossero re pro tempore. Ogni volta, la speranza e l’ottimismo “per il futuro della nostra democrazia” furono la nota dominante. Chi parlava di continuità chi di rinnovamento, o come Bill Clinton, Presidente dal 20 gennaio 1992 al 20 gennaio 2000, di “un sistema perfettibile”. Ma Trump ha tracciato un ritratto disperante dell’America, che ha definito una repubblica non una democrazia, parlando persino di modificarne le istituzioni. Il suo monito che instaurerà la legalità e l’ordine nonché la libertà, come se non fossero mai esistiti, significa che la giustizia finirà nelle mani dei suoi seguaci e che i tecno oligarchi, i social, gli influencer ecc. potranno fare ciò che vogliono. D’obbligo all’insediamento alla Casa Bianca il nuovo inquilino afferma che rappresenterà anche l’opposizione, ma Trump non lo ha fatto. Una dimenticanza esasperata dalla presenza tra i suoi familiari e i suoi ministri dei tre uomini più ricchi della terra, Elon Musk, Mark Zukerberg e Jeff Bezos. Trump si sta comportando come se avesse ottenuto un mandato da tutti gli americani. Eppure alle elezioni di novembre conquistò soltanto l’1,5 per cento di voti popolari in più di Kamala Harris, la ex vice presidente sua avversaria, il minimo dal 2000. Nel 2020 Joe Biden, il Presidente più vilipeso dell’ultimo mezzo secolo, lo superò del 4,5 per cento.
Il paragone con Reagan…
Per motivi diversi, l’inaugurazione della presidenza Trump mi ha ricordato le inaugurazioni di altre due presidenze repubblicane, quelle di Ronald Reagan, l’ex attore e ex governatore della California, il 20 gennaio del 1981, e del generale Ike Eisenhower, il vincitore della Seconda guerra mondiale, il 20 gennaio del 1953. Partiamo da Reagan, un “outsider” o anticonformista della politica alla pari di Trump. Come Trump si è insediato alla Casa Bianca al principio della tregua dell’orrida Guerra di Gaza, una beffa al Presidente democratico uscente Joe Biden, così Reagan vi s’insediò al rilascio degli ostaggi americani in Iran dopo 444 giorni di prigionia, una beffa al Presidente democratico uscente Jimmy Carter. Non accidentalmente, sottolineo, data la partecipazione di loro emissari ai relativi negoziati, come è emerso oggi e come emerse allora. Di più. Come Trump è considerato un potenziale dittatore da molti in Europa, così Reagan, che definiva l’Urss “l’impero del male”, fu ritenuto un guerriero della Guerra fredda. Ma Reagan sorprese il mondo tenendo un dialogo così serrato con il Cremlino da porre fine a essa, e sospetto che Trump possa fare lo stesso stabilizzando il Medio Oriente con un accordo tra le sue due superpotenze, Israele e l’Arabia Saudita, accordo da lui già impostato nel primo mandato dal 20 gennaio 2016 al 20 gennaio 2020. La sua promessa di stroncare il terrorismo e di neutralizzare l’Iran, cosa che aprirebbe la strada alla lenta formazione di un pacifico Stato della Palestina, è indicativa in questo senso.
… e quello con Eisenhower
Veniamo a Eisenhower, un membro dell’“establishment”, la dirigenza politica, all’opposto di Trump e di Reagan. Anche Eisenhower si trovò alle prese con una guerra in corso, quella di Corea, ma la risolse con l’intervento dell’Onu e con una tregua (non una pace) esattamente come sta succedendo a Israele, tregua che lasciò quel Paese tuttora diviso in due. E sorprendendo il mondo, come più tardi fece Reagan, imboccò una strada su cui noi tutti vorremmo che si avviasse Trump: quella della lotta contro il “military industrial complex”, ossia l’intreccio di affari leciti o illeciti tra il Pentagono e i capitani dell’industria, oggi sostituito appunto dal “tech industrial complex”, le tecno oligarchia. Eisenhower, che aveva alle spalle due Guerre mondiali ed era un cultore della Storia, lo denunciò nel suo discorso inaugurale come il maggior pericolo per la democrazia americana e lo ridenunciò al termine dei suoi due mandati otto anni più tardi. L’ex generale alludeva all’indebita influenza sulla politica che ebbero i cosiddetti “robbers barons”, baroni ladri, della fine dell’Ottocento, i padroni della rivoluzione industriale come Andrew Carnegie, il re dell’acciaio, come Pierpoint Morgan, il re della finanza, e come John Rockefeller, il re del petrolio. E che ebbe altresì l’Elon Musk degli anni Venti e Trenta, ossia il genio dell’auto Henry Ford, un visionario ma un filonazista e antisemita che per fortuna non ottenne mai la presidenza degli Stati Uniti.
Il commiato di Biden
Mi aspettavo che nel corso della campagna elettorale i democratici evidenziassero il grave pericolo rappresentato dal nuovo “technological military and industrial complex”, ormai in marcia verso un connubio e un potere assoluto insieme alla politica. Tacquero, forse pensando che la maggioranza degli americani non li avrebbero ascoltati ed è toccato a Biden allertare i cittadini nel discorso di commiato la settimana passata. Come Presidente, Biden ha deluso molte aspettative, ma non è stato sempre “l’anatra zoppa” delle ultime settimane, dopotutto ha fatto più dei predecessori per le varie minoranze, ha ridotto la disoccupazione in America al 4,1 per cento, ha negoziato con insistenza su Gaza e con l’appoggio dell’Europa ha impedito alla Russia di occupare l’intera Ucraina. Il suo duro monito agli Usa sul “musktrumpismo” non può essere ignorato. La tecno oligarchia, ha asserito, “è una minaccia alla nostra libertà, ai diritti umani e civili, possiede infinite ricchezze, manovra per il controllo dell’intelligenza artificiale, erode la verità con le sue piattaforme informatiche, abusa del clima e dell’ambiente, non sacrificate a essa il futuro dei vostri figli”. E infine: “Abbiamo conservato la democrazia per oltre 250 anni, il periodo più lungo della storia dell’umanità. Difendiamola con coraggio!”. Sono parole su cui Trump e Musk e la corte imperiale che rischia di formarsi attorno a loro dovrebbero riflettere.
Il ruolo di Giorgia Meloni
La nostra premier Giorgia Meloni è forse la leader europea maggiormente in grado di costituire la voce della moderazione per il “musktrumpismo” che condizionerà l’Alleanza Atlantica e i rapporti Usa-Ue, per non parlare dei rapporti con la Russia, nel prossimo quadriennio. Ci auguriamo che nella sua frequentazione con un Presidente e un tecno oligarca di estrema destra, dal nazionalismo esasperato, rammenti loro i valori democratici della nostra civiltà, valori che l’arma più micidiale della storia, l’intelligenza artificiale, potrebbe seppellire se ridotta a strumento dei soli potenti.
Ennio Caretto