Il Premio Nobel per la pace ed ex Presidente democratico degli Stati Uniti Jimmy Carter, detto Jimmy who? (Jimmy chi? perché sconosciuto all’inizio della sua campagna elettorale del 1976), dichiara di volere arrivare a cento anni (ne ha novantanove) “per poter votare per Kamala Harris”. Barack Obama, il primo Presidente nero della storia americana, democratico e anch’egli Premio Nobel, grida all’America che “Yes, she can”, sì lei può conquistare la Casa Bianca sconfiggendo Donald Trump, lo slogan usato nel 2008, “Yes we can”, sì possiamo, quando la conquistò lui. E Bill Clinton, compagno di partito, che venne eletto Presidente nel 1992 all’insegna della speranza perché nato nella città di Hope, Speranza in italiano, proclama che Kamala “ce l’ha restituita e sconfiggerà l’odio con la gioia”, l’odio ovviamente che a suo parere Trump dissemina nell’elettorato statunitense. L’unico o quasi a dissentire tra i democratici è l’ultimo dei Kennedy, l’ambientalista Robert Jr, che ritira la sua candidatura alla Presidenza e appoggia Trump, suscitando la sdegno dei congiunti in quanto “traditore dei valori famigliari”.
Slogan ispirato a Roosevelt
Lei, Kamala, è più pragmatica. Nel discorso di accettazione della candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti al termine del Congresso del Partito democratico a Chicago spiega il perché dello slogan da lei scelto, “Libertà”, che campeggia in un enorme cartello alle sue spalle. Non lo precisa, ma è un riferimento a Franklin Roosevelt, il più grande Presidente democratico, il vincitore della Grande Depressione degli Anni Trenta e del Nazismo negli Anni Quaranta. Roosevelt promise agli americani quattro libertà, “la libertà di parola, la libertà di fede religiosa, la libertà dalla povertà e la libertà dalla paura”. Harris ne promette altrettante, “la libertà dalla violenza armata, la libertà di amare chi si vuole, la libertà di difendere l’ambiente e il clima, e la libertà che garantisce le altre, la libertà di votare”. E’ anche un’accusa a Trump, “un razzista, un sessista, un truffatore”, che discrimina contro i diversi, che senza dirlo esplicitamente minaccia una guerra civile nel caso che perda le elezioni, che non combatte l’inquinamento globale, e che chiede all’elettorato di giurare fedeltà a lui, non alla Costituzione, come un potenziale dittatore.
Cambiamento generazionale
Tutti gli slogan di cui sopra, tuttavia, hanno un denominatore comune: l’improvviso cambiamento generazionale, di genere e di colore che contro ogni aspettativa si verifica nel Partito democratico. Il Congresso di Chicago non è quello delle dinastie e della divisione tra le correnti come si temeva, è il Congresso della rinuncia della gerontocrazia bianca al potere, quella che è ancora padrona del Partito repubblicano, e del passaggio della leadership dagli uomini alle donne, più giovani e per di più nere. In buon ordine si ritirano lo stanco e fragile Presidente Joe Biden, ottantun anni, a cui l’America deve riconoscenza per avere saputo rinunciare al secondo mandato, la ex presidente della Camera Nancy Pelosi, ottantaquattro anni, e l’apostolo del socialismo Berni Sanders, ottantadue anni. E accanto a Harris, cinquantanove anni, emergono donne come la ex first lady Michelle Obama, sessant’anni, che elettrizza il Paese incitandolo a “do something”, fare qualcosa, e che include nel “lavoro da negri”, una frase spregiativa di Trump, quello di Presidente degli Stati Uniti. E ricompaiono donne che la Casa Bianca l’avrebbero meritata, quale Hillary Clinton sconfitta nel 2016 pur ottenendo tre milioni di voti più di Trump.
Una Kamala rinnovata
Come il Partito, così Kamala, la Vicepresidente degli Stati Uniti, esce rinnovata dal Congresso di Chicago. Sono sparite le sue esitazioni di quattro anni fa, quando perse le primarie democratiche contro Biden, ed è sparito il grigiore del suo quadriennio come numero due alla Casa Bianca. La nuova Kamala trasmette ottimismo ed energia, e quindi speranza ed entusiasmo. Attacca Trump non solo come uomo ma anche come politico, rivendicando il diritto di ammantarsi nel patriottismo da lui monopolizzato “perché noi rappresentiamo la democrazia e Trump e i repubblicani la tirannia”. Denuncia il “Progetto 2025” dell’ex Presidente che contempla l’epurazione di oltre cinquantamila dirigenti dello Stato e il varo dell’Iva, una tassa inesistente in America, a danno dei ceti medio e basso. Lo accusa di indebolire la Nato e abbandonare l’Ucraina al suo amico Putin. E mobilita le donne, che sono il cinquantatrè per cento della popolazione: “Fatevi i fatti vostri”. Soprattutto parla di esse come madri e come custodi dei valori americani, le fondamenta di una società equa e tollerante e “della nazione più grande della terra”.
Accecati dalla Kamalamania
Kamala Harris delinea insomma una nuova America. E una sua vittoria alle elezioni ne segnerebbe davvero l’avvento: lei sarebbe la prima donna Presidente, la prima appartenente a una minoranza, la prima a metà afro e a metà asiatica. Per i democratici, è inebriante. In un mese, dalla disperazione che Biden, ormai a tratti semi incapacitato, fosse travolto da Trump, essi sono passati a una euforia sfrenata. Troppi di loro sono accecati dalla Kamalamania generata dal Congresso di Chicago. Nei loro sondaggi la vicepresidente è favorita, e i finanziamenti per la campagna elettorale crescono, raggiungono al momento mezzo miliardo di dollari. Molti addirittura considerano Trump disfatto perché vecchio e instabile, come ha lasciato intendere Bill Clinton dicendo: “Io ho 78 anni, uno meno di lui, e non sarei più in grado di fare il Presidente”. E senza dubbio Harris batterà su questo tasto nei meno di settanta giorni di campagna elettorale che rimangono, cercando di trasformarla in un referendum sull’età e l’elasticità mentale del suo avversario. Ne ha l’opportunità perché anticipa l’America di domani, in cui i bianchi saranno la minoranza, mentre Trump incarna lo “yesterday’s man”, l’uomo bianco di ieri.
La vecchia America
In realtà non è certo che la nuova America sconfigga quella vecchia, ancorata ai propri privilegi e contraria a qualsiasi cambiamento. La vecchia America è numerosa e potente e vede in Kamala una sinistrorsa, una femminista e una arrivista i cui appelli al popolo sanno di antiamericanismo. I suoi trascorsi come Procuratrice dello Stato della California e come Senatrice a Washington verranno messi al vaglio e Trump, che la considera “una gattara e una delinquente” perché non è mai stata madre, la demonizzerà. Sarà gettato inoltre fango sulla sua vita privata e sul suo matrimonio con un divorziato padre di due figli, l’avvocato bianco Douglas Emhoff, potenzialmentee il primo “first gentleman” della storia. E gli alfieri del capitalismo estremo come Elon Musk, il fondatore della Tesla, sfrutteranno i media e i social di cui dispongono per diffondere “fake news”, false notizie, e suscitare scandali. La loro arma più pericolosa per Kamala sarà l’Intelligenza Artificiale, che può ingannare chiunque. Trump la ha già accusata di averne fatto uso per simulare mega comizi, in verità un trucco adoprato da lui.
Il voto dei fluttuanti
Per vincere le elezioni, più che piegare la conservazione la Vicepresidente dovrà conquistare il voto dei moderati, il cosiddetto voto fluttuante, spostarsi cioè verso il centro. C’è una piccola parte del Partito repubblicano che detesta il trumpismo ed è disposta ad appoggiarla. E ci sono gli indecisi, in particolare tra i latino americani, il quindici per cento della popolazione, che vogliono spazio nel Partito democratico. E’ su questo terreno che si combatterà la battaglia campale. Lo sa bene anche Trump che ha corteggiato Robert Kennedy dichiarando pubblicamente “mi piace e lo rispetto, è intelligente e lo conosco da molto tempo”, e che ha tacciato la rivale di filocomunismo. Il magnate si perde ancora in battute assurde, come “sono più attraente io di Kamala, la ho vista sulla copertina della rivista Newsweek ma non la ho riconosciuta, mi sembrava Sofia Loren”, ma il suo entourage lo spinge a concentrarsi sui temi politici. E il comunismo è il più facile, anche perché il vice di Harris, il Governatore del Minnesota Tim Walz, trascorse un anno in Cina come insegnante, e pur essendo membro della Guardia Nazionale per ventiquattro anni rifiutò di prestare servizio nella Guerra dell’Iraq.
Gli attacchi a Walz
La Vicepresidente ammonisce l’elettorato che “un secondo mandato di Trump sarebbe peggiore del primo, e tutti ricordiamo ciò che è stato”. L’ex Presidente ribatte che l’America rifiuterà “la Guerra Santa legislativa della falsa nera, la camerata Kamala” e che deve chiedersi “da dove lei viene”. Su Walz, secondo lui “un estremista e un bugiardo”, i trumpisti sono ancora più violenti. James Comer, il capo della Commissione di controllo della Camera a Washington, sostiene che il Governatore “ha avuto una lunga e affettuosa relazione coi comunisti cinesi” e non esclude che sia un loro “agente in sonno”. Il lettore ricorderà un celebre film del 2004 con l’attore Denzel Washington, “Va e uccidi”, un rifacimento de “The Manchurian candidate”, il candidato manciù, con Frank Sinatra. E’ la storia di un eroe di guerra americano che si candida alla Vicepresidenza degli Stati Uniti, ma che è al servizio di una potenza comunista nemica, e che tenterà di assassinare il Presidente. Rievocarlo è paradossale, ma è anche indicativo dell’odierna atmosfera elettorale in America. Il voto del 2024 si preannuncia più caotico di quello del 2020.
Il 6 novembre, il giorno dopo le elezioni presidenziali, l’Italia saprà con che America avrà a che fare. Il nostro Paese può solo sperare che sia una democrazia costruttiva, come è stata sia pure tra alti e bassi per quasi ottant’anni, e non distruttiva, come rischiò di diventare il 6 gennaio di quattro anni fa, quando i trumpisti assalirono il Parlamento.
Ennio Caretto