CASALE – Ha riscosso grande successo l’importante conferenza, contornata da un’interessante mostra, organizzata dall’Associazione Paolo Ferraris, in collaborazione con Legambiente, Medicina democratica, in collaborazione con l’Istituto Balbo ed il patrocinio della Città, in occasione del trentesimo anniversario dell’avvelenamento dell’acquedotto di Casale. Particolarmente emozionante il racconto della giornalista Monica Triglia, oggi vicedirettrice di Donna Moderna ma cronista locale all’epoca dei fatti. Era il 23 marzo 1986 quando arrivarono diverse segnalazioni, all’allora sindaco Riccardo Coppo, circa lo strano odore che emetteva l’acqua del rubinetto. Un particolare che aveva notato lo stesso Primo cittadino che aveva poi condiviso le proprie perplessità con i colleghi dell’Amministrazione. Furono svolte le prime analisi ma non vennero registrate particolari criticità. Fu un pozzo di Santa Maria del Tempio, dal quale usciva acqua schiumosa, a far certificare il disastro. Immediatamente fu informato il Prefetto e vennero svolte diversi prelievi nei serbatoi e nei pozzi dell’acquedotto di Sant’Anna, Pierdarossa e Santa Maria. L’entità del problema fu subito chiaro: l’acqua potabile era stata contaminata da rifiuti tossici. Nei campioni c’erano addirittura 33 agenti inquinanti tra i quali fenolo, anilina e xilolo. L’acquedotto fu subito chiuso, mentre le auto dei Vigili Urbani fecero più volte il giro della città, senza dimenticare nemmeno il vicolo più nascosto, per comunicare alle persone di non usare l’acqua del rubinetto. Fu un emergenza tanto grave e repentina che non c’era il tempo per stampare i primi manifesti. Oggi si userebbe Facebook o WhatsApp. All’epoca la maggior parte delle persone non aveva nemmeno idea di cosa fosse Internet (che si stava sviluppando in quegli anni). Nei giorni successivi venne pianificato il piano di emergenza per contenere la crisi. I Vigili del fuoco furono i primi a distribuire l’acqua, poi arrivarono i potabilizzatori della Protezione civile e gli uomini della Croce Rossa. Non servì molto agli inquirenti ed alla Procura della Repubblica per individuare ed arrestare gli autori degli sversamenti vietati. In manette finirono in quattro con l’accusa di corruzione ed adulterazione delle acque della rete idrica. Poco dopo arrivarono anche le condanne e per la prima volta Casale si scontrò contro una giustizia ridicola. Il titolare dell’azienda incriminata fu condannato a 2 anni e 8 mesi. 2 anni e 2 mesi gli altri. Pene di fatto non scontate a causa delle sospensioni condizionali. Il risarcimento stabilito dal tribunale di 800 milioni di lire, che non coprivano nemmeno la metà delle spese realmente sostenute, non fu mai né versato né recuperato. La Cassazione confermò lo scempio, incurante dei rischi che avrebbe potuto causare alla salute pubblica quell’atteggiamento criminale.
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