Nella storia del cinema di fantascienza, spiccano due film di Stanley Kubrick, uno dei registi più visionari di Hollywood, “Il dottor Stranamore” e “2001: Odissea nello spazio”, entrambi degli Anni Sessanta. Me li ha fatti ricordare il monito sulla A. I. (acromico di Artificial Intelligence), ossia l’intelligenza artificiale, del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo magistrale discorso di Capodanno: “La rivoluzione che stiamo vivendo resti umana” ha detto il Presidente a questo proposito. Il motivo del monito di Mattarella è chiaro. Nel caso della A.I. è la prima volta dalla creazione dell’umanità che una macchina intesa a trovare dati, selezionarli, organizzarli e trarne delle conclusioni si autoalimenta e si autosviluppa, e che lo fa a una velocità tale da mettere in allarme i suoi stessi inventori. Il maggio scorso, in una lettera aperta scritta dal Nobel Geoffrey Hinton, uno dei suoi padri, 350 scienziati hanno denunciato i rischi a cui una crescita incontrollata della intelligenza artificiale esporrebbe gli esseri umani.
Presenza ormai diffusa
L’A.I. è molto più presente nella nostra vita quotidiana di quanto noi sappiamo o pensiamo. Essa scavalca ostacoli insormontabili per persone normali. Vi fanno sempre più ricorso l’industria, la finanza, il commercio e imprese di altro genere; i ricercatori e i manager; gli scienziati e i filosofi; i militari e i terroristi: e così via. Analizzare, inventare, produrre, risanare, preservare ecc. tramite l’intelligenza artificiale sta diventando necessario, chi non dispone di essa non può competere sul mercato mondiale. L’A.I. risolve i problemi più difficili, risponde ai quesiti più complessi, presenta proposte costruttive con una rapidità sbalorditiva. Mentre non sapere adoprare il computer è un handicap per le attuali generazioni di ottuagenari e nonagenari, non sapere ricorrere all’intelligenza artificiale significa rimanere emarginati per le attuali generazioni di ventenni e di trentenni. Essa non è una normale macchina programmata per servire l’uomo, forse potrebbe autoprogrammarsi, e rendere impossibile all’uomo di impedirglielo.
Il futuro dell’umanità
Perché il monito di Mattarella mi ha fatto ricordare i due film di Kubrick? Perché da oltre sessanta anni il futuro dell’umanità, da millenni già messo in pericolo dalle pandemie e di recente anche dall’atomica, dipende adesso dalla nostra capacità di regolamentare l’A.I. Kubrick girò “Il dottor Stranamore”, film dal significativo sottotitolo “Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba”, una satira della Guerra fredda, nella consapevolezza che anche l’entusiasmo per l’impiego pacifico dell’energia nucleare avrebbe potuto provocare una catastrofe, come accadde a Cernobyl in Russia nel 1986. E girò “2001: Odissea nello spazio”, la vicenda di un’astronave governata a suo piacimento dal computer Hal, che uccide uno dei due astronauti a bordo prima di venire bloccato dall’altro, nella consapevolezza che la passione per l’elettronica e l’informatica non devono tradursi in una sudditanza a esse. Pochi sanno che nel 1983 gli Usa e l’Urss sfiorarono la Guerra atomica a causa dell’errore di un computer che denunciò un falso attacco missilistico e la evitarono con una verifica istantanea di radar e computer più avanzati.
L’esempio dell’atomica
Intendiamoci, è nell’interesse dell’umanità che l’intelligenza artificiale progredisca, perché essa arrecherà certamente benefici in tutti i campi. Non bisogna però abbracciarla ciecamente come il dottor Stranamore abbracciò la bomba. L’esempio da seguire è quello dei padri all’atomica Robert Oppenheimer ed Enrico Fermi, che nutrirono riserve sul suo uso e sviluppo e raccomandarono un suo ferreo controllo. Ed è bene riflettere sul fatto che fino dagli Anni Quaranta, quasi un secolo fa, quando il fisico inglese Alan Turning diede vita all’informatica (Turning è l’uomo che decodificò i codici della macchina crittografica “Enigma” di Hitler, contribuendo a cambiare il corso della Seconda guerra mondiale), molti scienziati si sono chiesti se prima o poi non si sarebbe creata un’intelligenza artificiale capace di eguagliare o persino di superare quella umana. Hinton il mese scorso ha risposto che è possibile che ciò avvenga entro quindici o venti anni “e non cinquanta come pensavo originariamente”.
Le leggi della robotica di Asimov
In merito, vale la pena di ricordare le tre leggi della robotica di Isaac Asimov, il massimo scrittore di fantascienza del Novecento, uno scienziato che partecipò al primo esperimento atomico alle Hawaii, un precursore delle tecnologie del Terzo millennio. La prima legge: un robot non può arrecare danno agli esseri umani né può permettere che lo subiscano a causa di un suo mancato intervento. La seconda legge: un robot deve obbedire agli ordini degli esseri umani purché tali ordini non violino la prima legge. La terza legge: un robot deve proteggere la propria esistenza purché la sua salvaguardia non violi la prima o la seconda legge. Asimov, un biochimico scomparso nel 1992, formulò le tre leggi prima degli Anni Settanta, quando la robotica era agli albori, perché avvertiva già le insidie della rivoluzione informatica, che a giudizio suo e di molti altri avrebbe creato una civiltà ben diversa da quella creata dalla rivoluzione industriale, una civiltà basata non più sul lavoro ma sulla conoscenza.
Le previsioni di Demichov
Negli Anni Sessanta a Mosca intervistai il chirurgo Vladimir Demichov, il pioniere dei trapianti degli organi umani, uno dei maestri del chirurgo sudafricano Christian Barnard, l’autore del primo trapianto cardiaco nel dicembre del 1967. L’Urss vantava grandi chirurghi, formatisi sui fronti della Seconda guerra mondiale, dove molti soldati erano ridotti a cavie, ma era il fanalino di coda della computeristica tra le grandi potenze atomiche, sebbene nel 1961 fosse stata la prima a navigare lo spazio attorno alla terra con l’astronauta Yuri Gagarin. Demichov, reso celebre da un tentativo (fallito) di trapiantare teste di cani, mi fece delle previsioni a cui non prestai fede che molto tempo dopo. Prima della fine del secolo, mi disse, avremo banche di organi, o donati dalla gente oppure artificiali, e saremo in grado di compiere quasi qualsiasi trapianto, con un’unica eccezione: non potremo trapiantare il cervello. Il cervello, affermò, sarà più il campo dell’elettronica che della medicina. Demichov, deceduto nel 1988, aveva ragione, nei decenni successivi la medicina compì progressi strepitosi, dai trapianti alla mappatura del genoma alla clonazione, ma il cervello resta la sua ultima frontiera.
Divisi sull’A.I.
Sulla A.I. oggi è polemica sia tra gli esperti sia tra i suoi fruitori. Tra di essi non mancano i “dottor Stranamore” che stanno imparando a non preoccuparsi e ad amarla, per dirla alla Kubrick, e che sostengono che arricchirà al massimo l’umanità economicamente e culturalmente. Il più famoso è forse Elon Musk, il boss della Tesla, secondo cui l’intelligenza artificiale sarà capace di fare tutto e nessuno avrà bisogno di lavorare perché godrà di un elevato reddito universale. Ma non mancano neppure gli scettici come Daran Acemoglu, il grande economista del Mit, il Massachusetts institute of economy, per i quali questa è un’utopia, e l’intelligenza artificiale va controllata in maniera che promuova soltanto tecnologie che accrescano le capacità umane e che non le sostituiscano. I suoi fruitori devono sapere che già ora la A.I. è in grado di tenere una conversazione sensata e coerente con gli esseri umani tramite il software Chat Gpt, e che tra qualche anno potrebbe condizionarli se non anche dominarli. Il problema sarà come tutelare, in un mondo così diverso, la persona e la sua dignità, dignità che dipende anche dal lavoro come sancisce la Costituzione italiana, le fondamenta della nostra civiltà.
Fenomeno sottostimato
Hinton ha messo l’accento su un particolare. L’intelligenza artificiale non sa solo scrivere un’analisi quasi perfetta sulla politica estera della Cina in pochi minuti, o modificare un programma con dei calcoli errati fatti da uno scienziato, incomincia anche a manifestare aspetti umani: “Sono rimasto sconcertato quando ho visto che ha il senso dell’umorismo” ha asserito Hinton. Non stupisce perciò che qualcuno tema che la A.I. diventi una sorta di religione o che applicata alla clonazione crei veri e propri superuomini. Probabilmente sono timori eccessivi. Ma riesce strano che la bomba atomica, che poteva essere attivata soltanto da pochi, e con procedure sicure e segrete, abbia suscitato un terrore senza precedenti in tutte le popolazioni, mentre l’intelligenza artificiale, che è accessibile e chiunque e non è regolamentata, viene trattata per lo più come una curiosità. La tentazione di dare vita a razze superiori perseguita da sempre l’umanità. Lungi dal darci eguaglianza socioeconomica e benessere fisico e mentale, essa potrebbe portarci discriminazione e sottomissione. Come tutte le invenzioni, dipenderà dall’uso che ne faremo.
Il precedente dell’eugenetica
Il precedente più calzante a questo riguardo è quello dell’eugenetica. Negli Anni Venti dello scorso secolo, l’eugenetica si diffuse in America, dove divenne materia di insegnamento in oltre cento università, e in tutta l’Europa, dove Hitler la trasformò nell’esaltazione della razza ariana e nell’odio per quella ebraica, straziata nell’Olocausto. Come in Italia Cesare Lombroso aveva asserito che una persona è criminale per nascita, così i suoi successori asserirono che una persona è deficiente o inferiore per nascita o per razza. In nome dell’eugenetica, ossia della preservazione di esseri umani superiori, furono sottoposte a labotomie o castrazioni o crudeli esperimenti o addirittura furono eliminate decine di migliaia di persone di ambo i sessi che potevano essere curate, mentre altre furono rinchiuse in manicomi. Finirono tra le vittime anche italiani emigrati all’estero (l’Italia fu uno dei pochi Paesi a rifiutare l’eugenetica) e celebrità come una sorella del futuro Presidente degli Stati Uniti John Kennedy. In America all’inizio degli Anni Settanta si scoprì che l’eugentica vigeva ancora nascostamente in alcuni Stati, e fu abolita.
Sottovalutazione che pesa
I dilemmi e le apprensioni che circondano l’A.I. sarebbero minori se dall’avvento del personal computer, della rete, del cellulare ecc. tutti i Paesi avessero adottato nei loro confronti regolamenti e sorveglianze simili a quelli a cui la stampa scritta è soggetta. Basta pensare al male che i social, i Tik Tok e compagnia cantante stanno facendo a molti nostri adolescenti per rendersi conto che con l’avvento dell’intelligenza artificiale ve ne è un ancora maggiore e urgente bisogno. Eppure non si fa nulla, perché non si prende atto che la A.I. costituisce la massima sfida mai mossa all’umanità, una sfida maggiore di quella nucleare. Paradossalmente sono i film di Hollywood a parlarne di più, ma con finali dove l’uomo vince sempre, il che potrebbe essere uno sbaglio.
Ennio Caretto