Prosegue l’analisi di Ennio Caretto sui rapporti fra Usa e Russia e sulla guerra in Ucraina
“Sappiamo tutti, tranne gli americani, che la sicurezza dei Paesi europei dipende dal fatto se la Russia si senta sicura o non”. Così nel gennaio del 1997 il presidente russo Boris Eltsin, il predecessore di Putin, si appella al cancelliere tedesco Helmut Kohl in visita a Mosca affinché l’Occidente rispetti la sfera d’influenza russa, che si estende ancora dai Baltici e dalla Bielorussia fino all’Ucraina e alla Georgia.. E’ esattamente ciò che Putin si aspetterà da Bush Jr. dopo la loro “luna di miele” del 2001, nata dal sorprendente appoggio del Cremlino a Washington dopo la strage delle Torri gemelle di Manhattan ad opera dei terroristi di Al Qaeda. “L’amico Putin” di Bush Jr. è stato uno dei più potenti colonnelli del Kgb, la polizia segreta sovietica, e sa molto sull’Europa e sull’America e i loro leaders, ma ha il merito di non essere un ideologo marxista leninista (non parla mai di Marx e Lenin) e dopo il crollo dell’Urss ha elogiato Stalin soltanto come il vincitore della Seconda guerra mondiale, la “Grande guerra patriottica”, insieme con il presidente americano Roosevelt e il premier britannico Churchill.
C’è tuttavia una cosa che Bush Jr. e suoi consiglieri non capiscono. Che Putin ragiona come lo zar Pietro il Grande, il fondatore di San Pietroburgo nel 1703, il padre della “Grande Russia”, di cui si sente probabilmente l’erede. Per Putin, che è nato proprio nella colta, eroica San Pietroburgo, la ex Leningrado, l’Urss non è stata sconfitta dagli Usa nella Guerra fredda, è implosa a causa delle tensioni e repressioni interne. La Russia, la sua colonna portante, pensa, ha il diritto di conservare qualche potere sugli Stati che da secoli o decenni si trovano nella sua orbita, l’Ucraina innanzitutto, la sua progenitrice. La Russia, una superpotenza atomica come l’America, dichiara Putin, non può essere relegata a un ruolo secondario o essere privata del suo spazio vitale. Le nazioni limitrofe devono essere o neutrali o filorusse, come il Messico e il Canada sono filoamericane. Washington non può interferire, non può cingerla d’assedio con Paesi della Nato.
Ciò riesce inaccettabile, se non incomprensibile, a Bush Jr., secondo cui il crollo dell’Urss ha lasciato libere le ex Repubbliche sovietiche come l’Ucraina e la Georgia, e gli ex Stati comunisti satelliti come la Germania Orientale e la Romania, di rivendicare la propria indipendenza e di schierarsi con la Russia o contro di essa. Il presidente è già maldisposto perché nel 2003 Putin ha interpretato come provocazioni due sue discutibili iniziative, la denuncia unilaterale del trattato Abm che vieta la produzione di missili antimissili, e la dichiarazione di guerra all’Iraq, un Paese legato alla Russia, un importante alleato russo in Medio Oriente. Enuncia quindi due nuove dottrine di politica estera infischiandosene delle inevitabili critiche del Cremlino: la dottrina della Guerra preventiva, in base alla quale l’America, se minacciata, ha il diritto di attaccare per prima il nemico, e il “Programma libertà” (Freedom Agenda), in base al quale l’America si adoprerà per liberare e democratizzare le nazioni oppresse.
Per quanto riguarda l’Europa, il “Programma libertà’” prevede che anche le ex Repubbliche sovietiche, non solo gli ex Stati comunisti europei, possano chiedere di entrare nella Nato, cosa che Putin non vuole ma non è in grado di impedire. Per sua sfortuna quell’anno in Georgia, lo stato natale di Stalin, scoppia la “Rivoluzione delle rose”, una rivoluzione giovanile e pacifica, ma appoggiata da Bush Jr., e viene eletto presidente Mikhail Saakashvili, un nazionalista antirusso e filoamericano. Dai documenti poi desecretati dalla Cia, Putin incomincia a sospettare che l’America prepari altre “rivoluzioni colorate” nel suo spazio vitale, Ucraina inclusa. E ammonisce le capitali circostanti che il loro benessere e la loro sicurezza dipendono più da Mosca che da Washington. Per mettersi al sicuro all’interno in Russia, adotta inoltre una politica autoritaria anche nell’economia, che era stata privatizzata con conseguenze disastrose da Eltsin, settore militare escluso, su spinta dei prestiti fornitigli dal presidente americano Clinton.
Onde evitare il dissesto nazionale, Putin prende a nazionalizzare di nuovo le principali industrie russe, tra cui quella petrolifera dalla quale l’America mira a trarre ingenti profitti, reprimendo gli oppositori politici e imprigionando gli oligarchi che gli resistono. Questa strategia produce un sia pure temporaneo miracolo economico che rafforza il suo potere ma viene considerata dal business americano a proprio discapito e di stampo staliniano. I falchi della Casa Bianca, capeggiati dal vicepresidente Richard Cheney, dicono a Bush Jr. che Putin “è solo Kgb, Kgb, Kgb”, e più tardi lo stesso presidente lamenta di essersi sbagliato: “E’ uno zar ed è male informato sull’America. Discutere con lui è come discutere con un liceale testardo dalle idee sbagliate”. Come a dire: il Putin vero è ben diverso dall’”Amico” del 2001.
Ciò malgrado, per tutto il 2004 a Washington e a Mosca rimane in vigore un tacito divieto di parlare di una “Cold war two” (Seconda guerra fredda). Ma il clima è già quello. Nonostante le proteste di Putin, che manda caccia e bombardieri a sorvolarle minacciosamente le tre ex Repubbliche sovietiche baltiche, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania vengono accolte nella Nato. Bush Jr. reagisce al dispiego di forze di Putin inviando in Europa Nicolas Burns, il suo diplomatico di fiducia, a sollecitare gli alleati a prendere le distanze dalla Russia, ma ha scarso successo, come dimostra il seguente messaggio dell’Ambasciata americana a Roma al Dipartimento di stato a Washington, dove si dà per scontata l’amicizia tra il nostro premier Berlusconi e Putin: “L’Italia ammette che Putin attua le riforme necessarie in Russia con metodi molto autocratici ma ritiene che condurranno a una più stretta collaborazione con l’Europa e l’America. Per l’Italia avere anche la Russia tra gli Stati membri della Nato sarebbe come realizzare un sogno”.
Il dissenso di parte dell’Europa, che chiede il negoziato non il confronto con la Russia, non frena Bush Jr. Il presidente americano chiude le porte della Nato a Putin, che nel giudizio del “Council of foreign relations” di New York (Consiglio dei rapporti esteri) si è anche alleato all’Iran, il nemico degli Usa, e che trama per il distacco da Washington di potenze europee come la Germania. La Nuova guerra fredda non può più rimanere nascosta, e infatti la rivista “Foreign affairs” (Affari esteri) sente di dovere rassicurare gli americani: “Abbiamo la supremazia nucleare e possiamo distruggere gli arsenali atomici russi attaccandoli per primi”. Va notato che negli otto anni in cui eserciteranno insieme la Presidenza, Bush Jr. e Putin terranno oltre venti incontri, un record nella storia delle due Superpotenze. Ma da quello astioso di Bratislava in Slovacchia del 2005, a cui assistemmo con disagio, i loro vertici saranno sempre più ostili. L’America ha perso ogni stima di Putin e la Russia ogni stima di Bush Jr.
La questione Ucraina esplode alla fine del 2004, principio del 2005. Alle elezioni del novembre 2004, il “candidato russo” Viktor Janunkovich rivendica la vittoria ma il “candidato americano” Viktor Juscenko lo accusa di gravi brogli elettorali. Le strade di Kiev si riempiono di giovani che protestano contro Mosca, è la “Rivoluzione arancione”, cosiddetta dal colore degli striscioni e dei vessilli da essi scelto. Lo scenario è lo stesso della Georgia un anno prima, un incubo per il Cremlino che, sconfitto, non può intervenire scopertamente. Su pressione della maggioranza dell’elettorato, la Corte Suprema ucraina ordina nuove elezioni a gennaio del 2005, e Juscenko le vince. E’ un trionfo per l’America, e alcune delle potenze europee auspicano negoziati tra Kiev, Washington e Mosca per una collaborazione a tre che fughi lo spettro della Seconda Guerra fredda.
Bush Jr. Però sceglie un’altra strada. Con il consenso di Juscenko indice manovre militari Nato e ucraine nel Mar Nero. E’ il primo passo americano, non dichiarato, verso la Crimea, dove il Cremlino ha le basi aeronavali più importanti del Sud.
La Crimea, storicamente appartenente alla Russia, ma, “regalata” nel 1964 a Kiev dal leader sovietico Kruscev, un ucraino, l’uomo che aveva denunciato i crimini di Stalin, è una Repubblica indipendente all’interno dell’Ucraina. Ma ha una popolazione quasi al 60 per cento russa, e riesce facile a Putin boicottarvi le manovre Nato. A maggio del 2006, quando un contingente di marines sbarca a Feodosia per costruirvi un “Centro di comando” per le esercitazioni, la popolazione istigata dal Cremlino insorge al canto di “Guerra Santa”, la canzone russa della Seconda guerra mondiale. “Soldati americani” urla un giovane “volete un altro Vietnam?” un’altra disfatta come quella del 1975 a Saigon. Il messaggio di Putin non potrebbe essere più chiaro: per lui la presenza americana in Ucraina va eliminata e la Crimea non si tocca. Bush Jr. annulla le manovre ma non si rassegna, ritornerà alla carica nel 2008 con la richiesta, subito respinta, di mettere piede in Crimea con una “Rappresentanza diplomatica” a Sebastopoli.
Un mese più tardi, il giugno del 2006, al G8 a San Pietroburgo, la Conferenza annuale delle sette potenze industriali più la Russia, fallisce un altro tentativo europeo di porre fine alla Nuova guerra fredda. Come auspica l’Europa, Putin cerca di riaprire il dialogo con Bush Jr. proponendo una ulteriore riduzione degli arsenali atomici dopo quelli concordati inizialmente nonché un nuovo ciclo di negoziati sulla Nato, la quale, ricorda, si era impegnata con l’Urss a non espandersi verso Mosca. Il “no” di Bush Jr. lo invelenisce: per rappresaglia Putin non liberalizzerà i servizi finanziari in Russia né acquisterà i Boeing 787 come propostogli da Washington, e si scaglierà contro “il mondo unipolare” creato dall’America “un mondo in cui c’è un solo padrone, un solo sovrano, che non ha nulla in comune con la democrazia e che viola il diritto internazionale”. Il tema, ricordiamo, su cui egli martella oggi per dipingere la Russia in Ucraina come una vittima dell’Occidente e con cui tenta di mobilitare gli altri membri dei “Brics”, Brasile, India, Cina e Sud Africa, a cui si sono appena aggiunti l’Iran e l’Arabia Saudita.
In un solo quinquennio, l’America e la Russia sono di nuovo nemiche, ed evitano a malapena di scontrarsi nei Balcani e in Medio Oriente, come accaduto poco più di un decennio prima. Quando il Kosovo annuncia che dichiarerà l’indipendenza dalla Serbia anche senza l’approvazione dell’Onu, il Cremlino ribatte che in quel caso riconoscerà unilateralmente l’indipendenza dell’Abcazia e della Ossezia del Sud in Georgia, e del Karabackh in Azerbaigian. E quando il presidente georgiano Saakashvili ricorrerà alle armi, Putin si approprierà delle regioni filorusse, certo che gli Stati Uniti non interverranno (la Cia lo sconsiglierà a Bush Jr. ammonendolo che Mosca scatenerebbe un conflitto anche in Europa). In uno dei loro ultimi vertici, i due presidenti si batteranno anche sulla Siria, dove la Russia ha basi militari, e Putin accuserà Bush Jr. di fare crescere l’estremismo, il radicalismo e il terrorismo mediorientali. Il Dipartimento di stato americano riassumerà così la situazione: “Abbiamo visto casi di intimidazione flagranti della Russia verso i Paesi filo occidentali, e il suo scivolamento in una direzione antidemocratica è preoccupante”.
Prima di uscire di scena nel gennaio del 2009, alla fine del suo secondo mandato, Bush Jr. tenta un
ultimo colpo contro Putin, chiedendo alla Nato di accogliere nel suo seno l’Ucraina e la Georgia. Le principali potenze europee, guidate dalla Germania e dalla Francia, si rifiutano di farlo, sapendo che il loro assenso avrebbe scatenato una guerra, quella guerra ucraina oggi in corso dal 2022. Sebbene la colpa della crisi sia soprattutto dei disegni di Putin, Bush Jr. se ne va con una certa responsabilità per la Nuova guerra fredda e per le divisioni interne della “vecchia Europa” come la chiama sprezzantemente un suo ministro. Nessuno tuttavia, neanche il suo successore Barack Obama, il primo presidente americano afro-americano, un intellettuale privo di esperienze di politica estera, può immaginare che Putin stia per imboccare la strada di Stalin, di invasione di Paesi all’estero, e di repressione feroce all’interno della Russia.
Il presidente russo è disposto a temporeggiare nella speranza che Obama gli vada incontro. Ma ha un “Piano B” perché, come accerterà la Cia, è pronto a progettare l’annessione alla Russia non solo della Crimea bensì anche del Donbass nel Nord dell’Ucraina, e l’insediamento di un suo governo fantoccio a Kiev, e a eliminare i leaders dell’opposizione, che si trovino a Mosca o in esilio. Il presidente russo, che accusa Washington di essere il “Terzo Reich”, la reincarnazione di Hitler, di fatto ripristinerà lo stalinismo. (2 – continua)
Ennio Caretto