A meno di sei mesi dalle elezioni europee, i ventisette Paesi dell’Ue rischiano di disunirsi anziché di unirsi maggiormente e più rapidamente di quanto abbiano fatto sinora. Le guerre dell’Ucraina e di Gaza, la minaccia di altre guerre in Medio Oriente, nel Golfo Persico e in Corea, le incursioni degli Houthi sulle rotte petrolifere e le crescenti manifestazioni di antisemitismo in Europa li hanno divisi sia all’interno sia tra di loro. E il risentimento dei cittadini per talune politiche socioeconomiche, i tentativi delle estreme destre di indebolire l’Unione dopo la Brexit, l’uscita della Gran Bretagna (che se ne è già amaramente pentita) nonché i tentativi del Presidente russo Putin di staccarla dagli Stati Uniti hanno aggravato l’eurocrisi. Se il novembre prossimo gli americani eleggessero Presidente Donald Trump, che non ama l’Ue come non ama la Nato, il sogno di un’Europa ago della bilancia internazionale e portatrice di democrazia svanirebbe. I nazionalismi riesploderebbero come negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo, un’epoca di dittature, fasciste e comuniste, che nessuno vorrebbe rivisitare.
Il sogno dell’Europa unita
Il sogno dell’unità europea è antico quanto la sua civiltà, una civiltà, si badi bene, che fu sempre armata. Dall’Impero romano a quello austroungarico, esso ha animato tutti i grandi leader della Storia, compresi i meno apprezzati come Charles De Gaulle, che mezzo secolo fa caldeggiava un’Europa “dall’Atlantico agli Urali”. Ed è un sogno giustificato oggi dai valori che la civiltà europea sta esportando al mondo intero, nonostante le due Guerre mondiali e gli attuali alti e bassi, valori quali la libertà, i diritti umani e civili, la dignità del lavoro, la sanità pubblica, la parità dei sessi, la preservazione dell’ambiente, ecc. Nel corso dei decenni passati, la mia professione mi ha condotto in oltre ottanta Nazioni diverse, e in nessuna di essa, nemmeno negli Stati Uniti o in Giappone, ho trovato un sistema politico e di governo migliore di quello delle socialdemocrazie europee. L’Ue ha il dovere di preservarlo e propagarlo nel rispetto delle altre civiltà, dei loro costumi e della loro storia, ma per farlo deve essere pronta a difenderlo anche da sola. E al momento non è in grado di farlo.
Risveglio lento e difficile
Uno dei pochi segni che parecchi dei ventisette Paesi dell’Ue hanno preso coscienza dei pericoli che stanno correndo è la discussione da essi aperta, o meglio riaperta, su una difesa comune e almeno in parte autonoma dell’Europa, sinora quasi totalmente dipendente dagli Stati Uniti per la propria integrità. Soprattutto in Germania e in Francia, che hanno già annunciato misure al riguardo, ma anche in Italia, che inizia a progettarle, si parla di un riarmo coordinato e di una politica unitaria dell’Ue. E’ come se l’Ue si stesse risvegliando militarmente da un sonno che la ha intorpidita, un risveglio lento difficile e costoso, ma indispensabile. Non che il contributo europeo alla Nato sia sempre stato nullo, tradizionalmente noi contribuiamo a un terzo circa del suo costo. Ma la capacità militare dell’Ue è inferiore al dieci per cento di quella degli Stati Uniti, che di recente ci hanno inviato altre truppe a protezione dei confini con la Russia, e ciò ci rende loro sudditi. In quanto entrambe potenze nucleari, soltanto la Francia e l’Inghilterra hanno voce in capitolo con essi nella politica di difesa dell’Occidente.
Gli ostacoli sul cammino
Vari sono i motivi che hanno impedito all’Ue di assurgere a potenza militare, oltre alla sua cecità o ignavia, se tali si possono definire. Uno è stato l’inevitabile disarmo della Germania e il divieto di intervenire all’estero a essa imposti dopo la Seconda guerra mondiale. Un secondo è stato il veto opposto dalla Francia nella persona di Pierre Mendes France, uno dei padri fondatori della nuova Europa, al disegno di una comune difesa europea negli anni Cinquanta. Un terzo è stata la velata riluttanza dell’Inghilterra a integrarsi in una struttura di cui nascostamente diffidava. Un quarto, il meno noto ma non il meno importante di tutti, è stata l’opposizione dell’America allo sviluppo di superarmi da parte dell’Ue. Negli anni in cui fui corrispondente de La Stampa prima e del Corriere della Sera poi da Washington, vidi il Pentagono bloccare la costruzione di un caccia europeo, la Casa Bianca sottrarre la produzione dell’elicottero presidenziale all’Agusta italiana, e il Congresso (il Parlamento) rifiutare gli aerei cisterna dell’Ue. Il tutto per proteggere la galassia industriale e militare degli Usa.
L’atteggiamento degli Usa
E’ vero che a differenza di Trump la maggioranza dei leaders americani non vuole che l’America esca dalla Nato, e infatti il Congresso ha approvato una legge in base alla quale il Presidente non può farlo senza l’assenso della Camera e del Senato. Ma questa maggioranza chiede dall’Ue più soldi e più soldati, non più alte tecnologie e più sofisticate strategie militari. Essa considera la Nato un braccio armato degli Stati Uniti, mentre la Nato nacque in funzione antisovietica e si sviluppò soltanto come un’alleanza atlantica a difesa dell’Occidente e operante al suo interno. In base allo statuto originario, la Nato non doveva venire coinvolta nella guerra dell’Iraq dal presidente Bush figlio nel 2003, per esempio. L’America e l’Europa possono essere due facce della stessa medaglia, ma in Medio Oriente e altrove vi sono aree in cui gli interessi americani e quelli europei non coincidono, soprattutto quando si sviluppano focolai di tensione. Una minore dipendenza dell’Ue dagli Stati Uniti per la propria difesa le conferirebbe una maggiore autorevolezza e libertà di manovra politica e diplomatica.
Imparare dagli errori
Il precedente dell’Ueo o Unione europea occidentale, nata nel 1954 per il coordinamento di tutte le misure di sicurezza adottate separatamente dalle varie Nazioni, e per ridurre così la dipendenza dagli Stati Uniti, ma sciolta nel 2011 per la sua inutilità, è un monito all’Ue a evitare gli errori del passato e a imboccare la strada degli armamenti moderni, delle forze armate comuni, di un Alto comando congiunto e così via. Questo non è un discorso da guerrafondai, come si diceva una volta, nessuno può essere innamorato delle guerre, è un discorso di sopravvivenza nel caso che il rapporto con l’America si guasti. Sinora l’Ue ha fatto troppo poco di concreto, ha approvato soltanto una “Bussola strategica” che prevede entro il 2030 il dispiego di un corpo speciale di cinquemila soldati europei in situazioni di emergenza. Ma un anno fa la Germania ha stanziato cento miliardi di euro per la formazione entro il 2027 di un esercito che possa integrarsi gradualmente con quelli di altri Paesi, d’accordo con la Francia. Berlino e Parigi pensano a un gruppo difensivo di Paesi sul modello Shengen, l’area dell’euro.
Il ruolo dell’Italia
In questo progetto l’Italia non avrebbe un ruolo secondario. Pochi italiani sanno che gli Stati Uniti, i quali si considerano i migliori “peacemakers” o creatori di pace del mondo (come dire: facciamo le guerre per imporre la pace), definiscono i nostri carabinieri i perfetti “peacekeepers” o preservatori di essa. E infatti negli anni Novanta, dopo i bagni di sangue nei Balcani, il Pentagono puntò sui carabinieri e su altre nostre forze armate per stabilizzarli e pacificarli, in particolare nel Kosovo, dove l’Italia ha ancora ottocento uomini. Ma l’Italia, che tiene dodicimila soldati all’estero, dai Paesi Baltici al Golfo Persico, e che per anni ha dato buona prova di sé dal Libano all’Iraq, è capace di fornire un contributo ancora maggiore a un’Ue militarizzata. Lo ha sottolineato il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, con la sua proposta di una flotta navale italo-franco-tedesca nel Mar Rosso contro gli Houthi, proposta che evoca le lotte dell’antica Roma coi pirati. Già presente nel Mediterraneo nelle vesti più diverse, a cominciare dal salvataggio degli emigranti dall’Africa, la nostra Marina salperà anche per altri mari.
Un ruolo da costruire
E’ chiaro che l’Europa non diventerà mai una superpotenza armata del calibro dell’America, della Russia e della Cina, o anche solo dell’Iran e dell’India, e che dovrà sostenere spese enormi per il proprio riarmo. Si calcola tuttavia che la mancanza di una stretta cooperazione militare tra i suoi Paesi membri comporti attualmente uno spreco dai 25 ai 100 miliardi di euro all’anno, spreco che verrebbe eliminato con il varo di un altro programma. E comunque, malgrado i suoi trascorsi colonialisti, le sue sarebbero esclusivamente missioni di difesa dei propri territori o di pace in quelli altrui. L’amministratore delegato del gruppo Leonardo, Roberto Cingolani, sostiene che l’Ue deve investire soprattutto in tecnologie dirette a questi scopi e alla prevenzione di conflitti in aree anche lontane, in altre parole alla formazione di un nuovo ordine mondiale. Quest’ultimo punto è di particolare importanza. Come “Terza forza” tra gli Stati Uniti da un lato e la Russia o la Cina dall’altro, l’Ue assurgerebbe a punto di riferimento anche per Nazioni lontane e le sue mediazioni risulterebbero più efficaci.
Un futuro col terrorismo?
In questi giorni alcuni media europei, inclusi quelli italiani, ammoniscono che c’è il pericolo di una nuova guerra mondiale. Essi temono che si espandano tutti i conflitti in corso, dall’Ucraina a Gaza, e dall’Africa al Golfo Persico, e che ne esplodano altri dalla Corea a Formosa. Peggio ancora, non escludono che la Russia attacchi i Paesi Baltici, dove l’Italia ha mandato aerei e bersaglieri, e che l’Iran attacchi Israele. Lo stesso Pontefice Francesco ha esortato i leaders di queste e di altre Nazioni a deporre le armi denunciando i terribili sacrifici di vite umane verificatisi negli ultimi mesi. Ma mentre è vero che l’Europa e il Medio Oriente, se non anche l’Estremo Oriente, vivono un periodo di tensioni che ricorda quelli della Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, o gli Stati Uniti e la Cina, è impossibile credere che possa davvero scoppiare una Terza guerra mondiale, come lo fu quaranta anni fa. Non c’è leader estremista che ignori che essa degenererebbe in una guerra atomica da cui l’umanità non avrebbe scampo. E’ più probabile che si scatenino lunghe, tragiche ondate di terrorismo.
Modello da esportare
Il merito maggiore dell’Ue è di avere trasformato i nemici di ieri in amici di oggi, si pensi alla Germania e alla Francia ad esempio, o all’Italia e alla Slovenia, e di avere vanificato la possibilità di un golpe o di una violenta preservazione del potere in qualche Paese membro. Nonostante le molte obiezioni che le si possono muovere, Bruxelles è il collante che tiene assieme avversari secolari e promuove il loro comune progresso. Lo confermano le continue richieste di adesione a essa di ex Stati comunisti, per ultima l’Ucraina la cui candidatura verrà esaminata a tempo debito. L’Ue è un modello che altre regioni in altri continenti dovrebbero seguire, ed è ora che ne abbiamo coscienza e che capiamo che non può continuare a essere il classico vaso di coccio tra vasi di ferro in questo mondo in fiamme.
Ennio Caretto