Amahoro!
Questa volta il vostro corrispondente dal Centrafrica non vi scrive da Bangui, ma da Kigali e Bujumbura, rispettivamente le capitali del Ruanda e del Burundi, due piccoli ma popolatissimi stati africani situati nella celebre zona dei Grandi Laghi, appena sotto l’equatore. Ogni anno un paese dell’Africa francofona ospita il secondo noviziato, una formazione di tre mesi per i candidati alla professione solenne, cioè l’impegno definitivo nell’Ordine. Quest’anno è stato il turno del Burundi e sono stato invitato ad animare una sessione di una settimana. L’occasione mi ha quindi permesso di visitare una zona dell’Africa dove non ero mai stato.
La missione carmelitana in Burundi, fondata dai miei confratelli polacchi nel 1971 (lo stesso anno nel quale gli italiani arrivarono in Centrafrica), si è successivamente allargata al vicino Ruanda per il semplice motivo che il dittatore del momento, un certo Bagaza, cacciò dal paese tutti i missionari. I miei confratelli ripararono nel confinante Ruanda e ciò permise la nascita del Carmelo anche in quella terra. È quindi proprio il caso di dire che non tutto il male vien per nuocere e che Dio sa trarre del bene anche dalla prepotenza degli uomini.
Il Ruanda e il Burundi, entrambe ex-colonie dell’Impero tedesco e in seguito del Regno del Belgio, sono un po’ più grandi del Piemonte e della Lombardia insieme. Pur avendo una superficie venti volte più piccola del Centrafrica, hanno una popolazione superiore al doppio del paese in cui vivo. Siamo abituati a pensare che il continente nero sia identico dal Senegal al Kenya, fino al Botswana. In realtà ogni paese è ben diverso. Ed è diverso il modo di salutarsi o di suonare i tamburi, il modo in cui le donne intrecciano i capelli o si avvolgono in tessuti colorati.
A Kigali, situata a 1.600 metri di altezza e conosciuta come la capitale più pulita del continente, sono accolto da padre Gallican che, come suoi diversi confratelli, trascorse una parte della sua formazione in Centrafrica. Dopo una breve sosta presso le nostre consorelle in capitale, ci dirigiamo verso il nord del Ruanda. Sono immediatamente sorpreso dalla bellezza e dall’ordine che regna nel paese. Le colline, le mille colline de Ruanda, sono coltivate quasi centimetro per centimetro, come un puzzle di differenti colture: thè, fagioli, patate e, nelle valli, riso. Non ci sono manghi come in Centrafrica, ma soprattutto banani e poi varie specie di pini, cipressi ed eucalipti che emanano un intenso profumo. Ogni tanto gruppi di mucche bianche e nere al pascolo mi ricordano che il Ruanda è giustamente conosciuto come la Svizzera dell’Africa. In realtà, metti i banani al posto dei vigneti e aggiungi un po’ di bambini, alcuni paesaggi mi ricordano un po’ anche il mio Monferrato. La gente è laboriosa, quasi silenziosa, sempre disciplinata. Sembra incredibile pensare che questo paese abbia vissuto, solo venticinque anni fa, uno dei più sanguinosi genocidi che la storia abbia conosciuto e nel quale, in soli cento giorni, quasi un milione di persone vennero uccise e molte di più furono costrette a lasciare il paese. Tra queste anche i genitori di fra Léonce, uno dei miei giovani in formazione, e Révocat, un mio carissimo amico, che lasciarono il Ruanda nel 1994, attraversarono il Congo e arrivarono fino a Bangui, coprendo una distanza di circa 2.000 km. Léonce e Révocat nacquero nei campi profughi congolesi della regione del Kivu e non hanno mai visto la terra da cui scapparono i loro genitori. Raccolgo per loro due pietre del suolo del Ruanda, sperando che un giorno possano anche loro toccare e vedere la terra dei loro antenati.
Arriviamo in serata a Gahunga, situata a 2.300 metri di altitudine, nella zona dei monti Virunga e a breve distanza dal confine con l’Uganda. La missione si trova ai piedi del grande vulcano Karisimbi, ormai spento, il cui cratere è nascosto tra le nubi, a ben 4.500 metri di altezza. Tra questi monti abitano i celebri gorilla di montagna e si trova una delle sorgenti del Nilo. Anche se l’accoglienza dei miei confratelli è calorosissima, non ho mai avuto così freddo in Africa.
L’indomani ci dirigiamo verso il sud e arriviamo a Butare, antica capitale del Ruanda, città universitaria e sede del nostro noviziato. Qui incontro padre Kamil, missionario in queste terre, insieme a padre Elie, dal 1971. Poi proseguiamo per Cyangugu dove, sulle sponde del lago Kivu, a due passi da Bukavu, nel Congo, si trova un monastero di carmelitane. Le monache mi raccontano che, durante la guerra, vennero evacuate in Francia, ma fecero un breve scalo a Bangui, dove dormirono una notte, a due passi dal Carmel. Giusto il tempo di gustare il clima caldo e umido della capitale del Centrafrica, ben diverso da quello dolce e temperato del Ruanda. Averlo saputo in tempo le avremmo bloccate a Bangui e avremmo già avuto un monastero delle nostre consorelle da queste parti.
Attraversiamo poi la foresta di Nyungwe che, se non è bella come quella del Centrafrica, è però abitata da diverse razze di scimmie, che spesso ci sorprendono in mezzo alla strada. Dopo aver contemplato colline ricoperte di piantagioni di thè, attraversiamo il confine e arriviamo in Burundi.
Il paesaggio è simile al Ruanda; anche qui la gente è laboriosa e si sposta a piedi e soprattutto in bicicletta. Il Burundi mi è subito simpatico. I colori della bandiera sono gli stessi del tricolore italiano e i mercatini che si affacciano sulle strade mi ricordano il Centrafrica. Bujumbura, capitale economica del Burundi, adagiata sulle rive del lago Tanganica, il più profondo e il più lungo dell’Africa, è la destinazione del mio viaggio. Qui mi fermo per una settimana.
In Africa non ho mai visto un popolo così devoto come quello burundese. Gli africani sono naturalmente religiosi, ma i burundesi di più. Gli undici ‘novizi’ prevengono però dal Burkina Faso, Togo, Camerun, Congo, Madagascar e Centrafrica. Il tema della sessione è un’introduzione alla lettura del Cammino di perfezione, l’opera più pedagogica di santa Teresa d’Avila, una sorta di magna charta del Carmelo riformato. Qualcuno l’ha genialmente definito il Vangelo di Teresa. Insegna a volersi bene, a essere umili, a pregare, ad amare la Chiesa. Si tratta di un testo scritto nella Spagna del 1500 e destinato a delle monache di clausura. Raccolgo la sfida appassionante di rileggerlo, tra gli ippopotami del lago Tanganica, insieme ai miei confratelli africani, apostoli in un mondo in fiamme e in una Chiesa in tempesta nel XXI come nel XVI secolo. Forse neppure Teresa, che prima di morire desiderò ardentemente che i suoi frati arrivassero in Africa, avrebbe immaginato che quanto scriveva sarebbe stato letto, cinque secoli dopo, anche da queste parti.
Prima di prendere l’aereo per Bangui, ho giusto il tempo per una visita a Gitega, da pochi mesi promossa capitale politica del paese. Il breve viaggio mi permette di conoscere quello che è considerato un paese povero, ma che mostra indubbiamente alcuni segni di sviluppo che vorrei tanto vedere nel mio amato Centrafrica. A Gitega, ospite dei miei confratelli, ho la fortuna d’incontrare anche una trentina di mie consorelle, riunite per una formazione, provenienti da undici monasteri dell’Africa. Quale occasione migliore, e non prevista, per perorare, nel breve ma intenso incontro con loro, la fondazione di un monastero in Centrafrica che da tanti anni attendiamo! Coraggio, sorelle: vi aspettiamo a Bangui! La capitale spirituale del mondo – così come l’ha battezzata Papa Francesco – non può restare senza di voi!
In Burundi, quando una donna viene chiesta in sposa, la prima domanda che questa pone all’aspirante sposo è se possieda almeno una bicicletta. Se la risposta è affermativa il matrimonio si può fare. Le donne occidentali sono sicuramente più esigenti, mi ha informato mia madre, che nel 1969 si accontentò comunque di una Fiat Cinquecento. In Burundi, però, mi sono presto accorto di quanto questo elemento sia importante, per l’equilibrio della coppia, osservando decine di uomini che, in bicicletta sulle strade, pedalano trasportando la propria moglie seduta di dietro, con le gambe unite da un lato (un po’ come Gregory Peck e Audrey Hepburn, mi sia permessa la divagazione cinematografica, sulla Vespa nel film Vacanze Romane). Le biciclette dei Burundesi sono sicuramente più cariche rispetto alla Vespa delle star hollywoodiane. Non vanno a benzina e spesso le salite sono così ripide, e il carico così pesante, che è necessario scendere e spingere insieme, a piedi, il veicolo. Guardandoli mi sono venuti in mente i miei genitori che, non sulle colline del Burundi, ma del Monferrato, spingono da ormai cinquant’anni la bicicletta del loro matrimonio, sulla quale nel frattempo sono saliti figli e nipoti.
E forse è così anche per tutti noi. Tra salite e discese, panorami più o meno belli, carichi leggeri e carichi imprevisti, spingiamo la nostra bicicletta, felici e spesso un po’ stanchi, chissà da quanti anni.
Amahoro! Pace!
Padre Federico