Due settimane dopo l’annuncio del Presidente americano Biden che “l’accordo proposto da Israele” per una tregua nella Guerra di Gaza era a portata di mano, i combattimenti continuavano a infuriare e minacciavano di estendersi al Libano del Sud a causa di Hezbollah, la milizia terroristica di matrice iraniana. Può darsi che nelle ultime ore, al Cairo le delegazioni del premier israeliano Netanyahu e del leader di Hamas Sinwar, spinte dal direttore della Cia Burns, siano davvero vicine un compromesso. Ma anche se così fosse c’è da chiedersi che cosa, dopo una tregua, potrà accadere in Medio Oriente, alle prese con il conflitto più lungo e sanguinoso della storia di Israele, che è costato più vittime civili, le ultime delle quali in una scuola Onu dove, stando a Netanyahu ma non stando ai media americani e arabi, si sarebbero nascosti dei capi di Hamas. Un interrogativo angoscioso perché nel braccio di ferro a Gaza non sono in gioco solo il futuro del popolo palestinese e il sogno di uno Stato della Palestina ma altresì gli incerti equilibri mediorientali.
“L’accordo proposto da Israele” come lo chiama Biden, che in realtà lo ha ispirato se non stilato, prevede una tregua di sei settimane in cui una quarantina di ostaggi israeliani verrebbero scambiati con centinaia di prigionieri palestinesi, una parte della popolazione di Gaza tornerebbe alle sue case e riceverebbe gli aiuti internazionali. E’ un accordo con aspetti macabri, che in un secondo tempo prevede anche scambi di cadaveri e durante il quale difficilmente Netanyahu smetterebbe di cercare gli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, soprattutto dopo la liberazione sabato scorso di quattro di essi, tra cui Noa, la giovane diventata simbolo della “strage degli ebrei” del 7 ottobre grazie a una foto che la ritraeva urlante in sella alla motocicletta di un terrorista. Liberazione ottenuta dopo una battaglia che è costata la vita ad Arnon Zamora, il comandante di un corpo speciale israeliano, e a centinaia di palestinesi. In base all’accordo, inoltre, al sedicesimo giorno di tregua inizierebbero le trattative sulla fine della guerra.
Questo è un obbiettivo che al momento pare irraggiungibile perché Netanyahu e Sinwar sono su posizioni antitetiche sebbene sia gli israeliani, che vivendo in una democrazia la reclamano a gran voce, sia i palestinesi, che vivendo in una dittatura sono costretti a tacere, vogliono la pace. Secondo Netanyahu infatti la guerra finirà soltanto quando Hamas verrà sciolto e secondo Sinwar soltanto quando Israele deporrà le armi e si ritirerà da Gaza. In altre parole, il premier israeliano si propone di assumere il controllo della Striscia mentre il leader di Hamas intende mantenerlo. Intransigenze che hanno un’unica spiegazione: il timore dei due leader di apparire sconfitti qualsiasi intesa venga sottoscritta e di perdere così il potere, pur sapendo di fare il danno dei propri Paesi. Intransigenze da infrangere subito, per la stabilità del Medio Oriente e del Golfo Persico. Purtroppo, come gli Usa e gli alleati europei, Gran Bretagna e Francia in testa, non sono riusciti sinora a indurre Netanyahu alla ragione, così i Paesi arabi moderati guidati dall’Egitto e dal Qatar, il quale precedentemente favoriva il terrorismo, non hanno potuto smuovere Sinwar.
La situazione è stata resa più critica dalle dimissioni da ministro del governo israeliano di Benny Gantz, il leader moderato di Unità Nazionale, che ha accusato Netanyahu di “impedire la vittoria” e ha chiesto che indica le elezioni il prossimo settembre. Contrario come Gantz alla spietata offensiva di Israele nei territori palestinesi e alle stragi dei civili, si è dimesso anche il generale di brigata e comandante della Divisione Gaza Rosenfeld. Ma mentre la rigidità di Netanyahu ha una sua logica, la rigidità di Sinwar non ce l’ha. Il premier israeliano, ha scritto il quotidiano Haaretz, potrebbe intensificare il conflitto per andare davvero alle urne nelle vesti di salvatore della Patria o potrebbe puntare sull’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti a novembre perché Trump è propenso a intervenire contro Hamas. Sinwar ha una sola speranza: che la Guerra di Gaza dilaghi negli interi Medio Oriente e Golfo Persico. Non è escluso che i recenti attacchi dal Libano di Hezbollah contro il Nord di Israele ne siano un’avvisaglia.
L’Occidente sa di dovere isolare e immobilizzare l’Iran per avere una tregua nella Guerra di Gaza e per promuovere i successivi negoziati. Sa che Hezbollah non è solo uno dei bracci armati dell’Iran nel mondo islamico, è anche la massima forza terroristica nella regione, e sa che l’Iran ha giurato di vendicarsi dell’uccisione di Saed Abyar, un generale dei “pasdaran” la Guardia rivoluzionaria, ad Aleppo in Siria il 3 giugno, per mano israeliana. Biden ha definito la situazione alle frontiere tra il Libano e Israele “estremamente pericolosa”, e ha ammonito in segreto Teheran e Gerusalemme di non compiere passi falsi, come già fece mesi fa, quando l’Iran lanciò centinaia di missili su Israele, peraltro neutralizzati in volo. L’Italia è coinvolta in prima persona in questa vicenda perché ha 1.200 soldati nell’Unifil, le truppe dell’Onu di stanza da diciotto anni in quei territori. Noi siamo quindi chiamati, assieme agli americani e altri europei, a impedire che nella Guerra di Gaza si apra un secondo fronte. Il nostro ministro della Difesa Crosetto ha assicurato che se esso si aprisse i nostri soldati verrebbero “prontamente evacuati”.
In questo contesto, è necessario che l’Onu rifletta sulle analogie tra i primi dell’ottobre scorso e l’attuale settimana di giugno. All’inizio di ottobre, Israele e l’Arabia Saudita, che negoziavano da tempo in segreto, furono prossimi a un accordo. Per bloccarlo, l’Iran, che per anni aveva armato, finanziato e aiutato Hamas a costruire la sua rete di gallerie sotterranee, diede via libera alla “strage degli ebrei” del giorno 7. Adesso che al Cairo si tratta faticosamente tra Netanyahu e Sinwar, l’Iran fa la stessa cosa: autorizza Hezbollah ad attaccare Israele per impedire un’intesa tra i due leader. Chi contesta questa realtà, come avviene in Italia, è o male informato o è disonesto. L’Occidente ha gravi colpe coloniali, Israele ha imposto l’apartheid ai palestinesi, ed entrambi dovranno risponderne e rimediarvi, ma chi sta condizionando gli eventi in corso è l’Iran. La sua condotta in Medio Oriente e nel Golfo Persico differisce da quella della Russia in Ucraina solo perché non manda i “pasdaran” a battersi a Israele o in Libano, ma si serve di terzi.
L’America e l’Europa, nel caso che qualcuno non l’abbia ancora capito, sono i futuri bersagli degli Ayatollah iraniani. Putin non ha attaccato l’Ucraina per poi attaccare l’Occidente ma per creare una propria grande sfera d’influenza come ai tempi degli Zar e dell’Urss e per rifare della Russia una superpotenza. Egli sa di non potere sconfiggere l’America e l’Europa perché l’impiego di armi nucleari comporterebbe la “mutual assured destruction” (l’acronimo Mad significa “matto”, e non per caso) ossia la certa reciproca distruzione. L’Ayatollah Khamenei destabilizza il Medio Oriente e il Golfo Persico non solo per estrometterne l’Occidente ma altresì per poi distruggerlo. Egli chiama l’America “il grande Satana” ma ritiene l’Europa altrettanto corrotta e immorale. Mentre Putin è mosso da ragioni politiche, Khamenei è mosso da motivi religiosi. La sua è una feroce crociata alla rovescia contro gli “infedeli”, che sono tutti coloro, anche se islamici, che non condividono la sua interpretazione sciita ed estremista del Corano. E ciò rende quasi impossibile dialogare con Teheran, essa è la negazione della pace.
E’ ora di rendersi conto che oltre che con i conflitti ideologici, caratteristici dell’Occidente, abbiamo adesso a che fare, non per colpa nostra, con i conflitti religiosi, caratteristici del Medio ed Estremo Oriente. Lo scontro non è più solo tra democrazie e dittature come il secolo passato, ma anche tra democrazie laiche, laiche nel senso che vi coesistono atei e credenti, e teocrazie, regimi fideistici che si reggono su presunte leggi divine. E la storia ci insegna che nel corso dei secoli nel nome di Dio, che come papa Francesco non si stanca di ripetere è amore e pace, esse hanno commesso le più orrende atrocità, arrivando persino al genocidio. Nelle teocrazie non c’è libertà, non ci sono diritti umani e civili, non c’è eguaglianza tra i sessi, c’è esclusivamente l’obbedienza e l’obbligo “morale” di uccidere il nemico a meno che non si converta. Netanyahu e i suoi fondamentalisti ebraici rifiutano di accettare uno Stato della Palestina, ma Khamenei e Sinwar e i loro terroristi intendono eliminare lo Stato di Israele.
Sotto il premier Modi, il fondatore del “Partito Indiano”, l’India rischiava di diventare un’altra tecnocrazia, dove i non indù, gli islamici soprattutto, erano trattati da “traditori”. Ma alle recenti elezioni, Modi ha conquistato appena 240 seggi in Parlamento anziché gli sperati 400, e dopo dieci anni si trova per la prima volta in minoranza. E’ un segno di incipiente rivolta contro le teocrazie, rivolta che un giorno, sicuramente non il mese prossimo quando andrà alle urne, scuoterà anche l’Iran. In Medio Oriente e in Estremo Oriente sono stati per lo più gli estremisti religiosi, non gli avversari politici, a uccidere i leaders moderati: in India, il padre della nazione Ghandi venne assassinato da un fanatico indù, e a Israele il premier Rabin, il fautore della pace con la Palestina, lo fu da un fanatico ebreo ortodosso. Forse un giorno Netanyahu, che si regge grazie agli estremisti, andrà sotto processo o a Israele o in una sede internazionale. Ma è più facile che nella Guerra di Gaza si rassegni alla moderazione che non Khamenei, Sinwar e i loro pari. E gli israeliani possono comunque rimuoverlo con il loro voto.
La conclusione? Senza la vittoria della moderazione non solo a Israele, ma anche a Gaza, in Iran e nel mondo dell’Islam, che è teocratico per definizione, non ci saranno pace in questa guerra né uno Stato della Palestina dopo.
Ennio Caretto