La settimana scorsa, i negoziati di Doha sulla guerra di Gaza parevano prossimi al successo, tanto da indurre il segretario di Stato americano Blinken a visitare Gerusalemme per la decima volta in un anno per stringere i tempi. Lo spaventoso bilancio del conflitto, oltre 40 mila palestinesi morti e oltre 90 mila feriti secondo Hamas, sembrava avere predisposto Israele e Hamas a un accordo entro la fine di settembre. In sintesi, Israele e Hamas, che ora dichiara però di esserne fuori, dovevano firmare una tregua di sei settimane: Hamas rilascerebbe i circa 120 ostaggi israeliani ancora a sue mani e Israele cederebbe ai Paesi mediatori il presidio del corridoio umanitario Filadelfia al confine israelo-egiziano. Sarebbe il primo passo verso cruciali trattative, un passo che forse eviterebbe un conflitto devastante tra Teheran da un lato e Gerusalemme dall’altro, che al meglio coinvolgerebbe solo il Libano ma al peggio gran parte del Medio Oriente.
C’è chi rema contro
Stando al cardinale Pier Battista Pizzaballa, il Patriarca latino di Gerusalemme, “un accordo è vicino ma c’è chi rema contro”. Ad affermare che sia vicino sono altresì il Presidente americano Biden, che ha reso chiaro che un attacco a Israele avrebbe “conseguenze catastrofiche per l’Iran”, il premier israeliano Netanyahu, che ha manifestato un “cauto ottimismo”, e l’Italia, la Francia e la Germania, che hanno ammonito israeliani e palestinesi che “la posta in gioco è troppo alta”. Chi rema contro è ovviamente Hamas, che accusa tuttora Netanyahu di volere una tregua per salvare il proprio governo, ormai contestato da molti israeliani, i congiunti degli ostaggi in testa, e secondo cui “parlare di progresso a Doha è un’illusione” perché “abbiamo respinto le condizioni poste da Israele”. Una posizione che, sia reale o sia propagandistica, ha indotto Netanyahu, Biden e i leader europei a chiedere ai Paesi arabi moderati di premere duramente su Hamas al punto da isolarlo affinché non boicotti la tregua.
Il ruolo di Teheran
Gli sviluppi delle prossime settimane dipendono tuttavia più dall’Iran che dai Paesi mediatori al Cairo. L’assassinio da parte di Israele del leader di Hamas, Ismail Haniyeh, a Teheran, di cui era ospite fisso con tanto di scorta, ha suscitato la furia dell’Ayatollah Khamenei, che ha dichiarato guerra a Israele, ma non gliela ha ancora mossa per tre motivi. Il primo è stato il monito di Biden, che ha immediatamente mandato un sottomarino atomico con circa 150 missili nelle acque iraniane e ha mobilitato i bombardieri e gli incrociatori delle locali basi americane. Il secondo è stato la messa a punto di un sistema difensivo aereo israeliano difficilmente penetrabile grazie agli aiuti degli Usa e dell’Europa. Il terzo, e il più importante, è stata l’incipiente rivolta degli iraniani al regime degli Ayatollah. Khamenei ha dovuto constatare che l’opposizione, alimentata da Israele, si sta rafforzando e che il regime è in bilico.
L’incognita Hezbollah
L’Iran pare essersi impegnato a non colpire Israele se i negoziati al Cairo daranno i frutti desiderati ad Hamas e ai palestinesi. Ciò significa che se i negoziati fallissero potrebbe assalirlo col sostegno della più potente organizzazione terroristica al mondo, Hezbollah, il suo braccio armato in Libano, che dispone di una rete di gallerie sotterranee superiore a quella scoperta a Gaza. Ma non è certo perché aumentano gli indizi che i vertici a Teheran sono infiltrati e divisi come quelli di Hezbollah, e di Hamas. La morte del presidente Ebrahim Raisi a maggio fu attribuita a un incidente aereo (il suo elicottero precipitò sulle montagne) ma secondo i servizi segreti anglo americani si trattò di sabotaggio. Il successore Masoud Pezeshkian sembra meno allineato a Khamenei, i servizi segreti israeliani credono che gli abbia sconsigliato di attaccare Gerusalemme nel timore di perdere non solo il conflitto ma anche il potere. E Teheran non riesce più a proteggere i leader dei suoi seguaci in Libano e a Gaza. Nelle ultime settimane, Israele ha ucciso Fuad Shukr, un leader di Hezbollah, a Beirut, e tre dirigenti di Hamas: Ahmed Abu Ara, Rafet Dawasi e Hussein Ibrahim. Il nuovo capo supremo di Hamas, Yahya Sinwar, la mente della “strage degli ebrei” del 7 ottobre dell’anno scorso a Gaza, è scomparso per non fare la stessa fine.
Repressione interna e guerriglia
Al momento, l’Iran pratica la strategia per esso meno rischiosa: una repressione interna che non faccia scoppiare una rivoluzione, e una guerriglia di logoramento contro Israele tramite Hezbollah che di continuo gli lancia addosso missili e droni. Una cautela che non era nei piani di Sinwar, che mirava e mira ancora a un conflitto mediorientale per distruggere Israele e sostituirlo con uno Stato palestinese. Ma sebbene appoggi il suo disegno, Teheran non può trascurare la possibile reazione degli altri Paesi arabi, a incominciare dall’Arabia Saudita, l’altra superpotenza del Golfo Persico. E la maggioranza di essi è arrivata alla conclusione che l’islamismo fondamentalista e aggressivo degli Ayatollah è controproducente e che per contenerlo è necessaria la sopravvivenza di Israele. Non a caso, la “strage degli ebrei” fu commessa per bloccare il riavvicinamento segreto in corso tra Gerusalemme e l’Arabia Saudita.
Il fine occulto dell’Iran
E’ possibile, forse probabile, che l’Iran abbandoni d’improvviso l’attuale prudenza. Basterebbe una provocazione di Israele o una sommossa popolare. Ma se lo facesse, sarebbe a proprio danno. A lungo termine, gli Ayatollah perseguono infatti un fine occulto, che è quello di impadronirsi della Mecca, la Città Santa dell’Islam in Arabia Saudita. Il loro scontro con Israele tramite Hezbollah, Hamas e altri movimenti terroristici è strumentale: essi sperano di suscitare un tale odio contro gli israeliani e gli ebrei da rendere fondamentalisti anche molti Paesi arabi moderati senza arrivare a un conflitto diretto. Gli Ayatollah sono sciiti, una fede che non raggiunge il 20 per cento degli islamici, l’Arabia Saudita è sunnita, una fede che supera l’80 per cento di loro. Ma questa sproporzione non è di freno a Teheran. Il possesso della Mecca la renderebbe la guida religiosa, finanziaria e militare della società dell’Islam, una società più numerosa e più in crescita di quelle dell’America, della Cina e della piccola Europa.
Strategia da Guerra fredda
Affinché si arrivi un giorno a uno Stato di Israele e a uno Stato della Palestina che convivano in pace occorre quindi sventare le trame di Teheran e stabilizzare il Medio Oriente e il Golfo Persico. La strategia più efficace è quella adottata dagli Usa nei confronti dell’Urss durante la Guerra fredda: il contenimento, una mistura di dialogo, di sfida economica e di riarmo che metta l’avversario in nette condizioni di inferiorità e lo costringa ad adottare una politica di distensione. Compito non facile, dato che adesso l’Occidente ha di fronte non una ideologia ma una fede, e tuttavia possibile perché, come l’Urss, l’Iran è una dittatura militare che vuole innanzitutto preservare il proprio potere e che in caso estremo sarebbe pronta a un compromesso. Israele ha tutto l’interesse a una tregua a Gaza proprio perché avvierebbe anche la maggioranza del mondo musulmano su questo percorso e si garantirebbe un futuro più sicuro. In queste circostanze, l’Unione europea è chiamata a contribuire all’equilibrio del Medio Oriente e del Golfo Persico con una mediazione equa e un forte soccorso al tormentato popolo palestinese, come invoca papa Francesco. La Germania, la Francia e l’Italia si sono schierate militarmente con l’America e l’Inghilterra, ma l’Europa deve puntare sulla sua arma migliore, la diplomazia.
Gli ostacoli sul percorso
In un percorso di pace sarebbe inevitabile incontrare seri ostacoli. Due sono già palesi. Il primo è la personalità di Netanyahu e di Sinwar, due politici egualmente spietati e a volte propensi a operare più per il vantaggio personale che per quello dei loro popoli. E’ chiaro che Netanyahu ambisce ad assurgere a salvatore della Patria e farsi rieleggere premier, e che gli conviene porre fine alla guerra, come è chiaro che Sinwar ambisce a protrarla per spacciarsi quale vincitore (e sottrarsi alla caccia dei servizi segreti israeliani). Ma c’è una differenza sostanziale: Netanyahu vive in una democrazia, e potrebbe essere sconfitto, Sinwar è un terrorista e un dittatore che ha soffocato nel sangue ogni opposizione. In Italia c’è chi lo identifica con la causa palestinese, ma è un grave errore. Chi rappresenta il futuro Stato della Palestina e viene riconosciuto dai più come tale è il suo rivale Abu Mazen, l’anziano Presidente dell’Autorità Palestinese e della Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
Un’altra incognita: Putin
Il secondo ostacolo nelle trattative di pace è Putin, a cui piacerebbe che l’America fosse coinvolta in una guerra mediorientale in modo da non potere più aiutare appieno l’Ucraina come invece sta facendo ora. Il Presidente russo ha formato con Khamenei un nuovo “Asse del male”, così dicono gli americani, per paralizzare la superpotenza, e le incursioni ucraine nel suo territorio con armi fornite da Washington hanno accresciuto la sua ira. Può darsi che Putin rimandi iniziative contro Biden a dopo le elezioni presidenziali americane ai primi di novembre nella speranza che le vinca “l’amico” Trump, ma non è escluso che le assuma prima. Nei sondaggi elettorali in America, la democratica Kamala Harris, la vicepresidente, ha superato il miliardario repubblicano e il responso delle urne è divenuto incerto. Se gli ucraini occupassero altre aree in Russia, al Cremlino e ai russi Putin non apparirebbe più invulnerabile.
Il 2025 sarà l’anno del Giubileo. Papa Francesco prega che sia un anno di redenzione per Israele e la Palestina. In nome dell’umanità, tocca ai leader dei Paesi in guerra e ai loro alleati renderlo tale.
Ennio Caretto