L’attuale metamorfosi dell’America da “Impero benigno” in “Impero maligno” nei confronti degli alleati, metamorfosi a mio parere momentanea, può essere illustrata da due ritratti, quello severo di Zio Sam con la tuba e con il dito puntato, e quello iroso di Zio Donald con i capelli gialli e con il dito alzato. Entrambi dicono la stessa cosa: “I need you!”, ho bisogno di te! Ma Zio Sam si rivolge agli americani come Kennedy si rivolse loro decenni più tardi, invitandoli a chiedersi “non cosa l’America può fare per voi ma cosa voi potete fare per l’America”, un appello ai loro patriottismo e senso del dovere. Mentre Zio Donald lancia l’identico messaggio agli europei, il cui patriottismo e senso del dovere vanno all’Europa, affinché servano la Superpotenza pagando tutti dazi sciagurati, investendo in essa anziché nei propri Paesi membri, consegnandole la Groenlandia e via di seguito. Nel nostro immaginario collettivo, il celebre ritratto di Zio Sam era il simbolo di un’America culla della democrazia e dei diritti umani e civili e guardiana delle nostre libertà, a partire da quella dei commerci. L’inatteso ritratto di Zio Donald rischia di diventare il simbolo di un’America stato di polizia all’interno, protezionista e aggressiva all’esterno.
Il 2026 banco di prova
Sospetto però che Zio Donald sarà costretto a ritoccare e raddolcire il proprio ritratto e a cambiare strada dopo le elezioni parlamentari americane dell’inizio di novembre del 2026, quando gli effetti negativi della sua Prima guerra commerciale mondiale sull’America diverranno chiari, così come i fiaschi della sua politica estera (dove sono finite le paci istantanee da lui promesse in Ucraina e a Gaza?), e il Partito Repubblicano, il suo, perderà il controllo della Camera o del Senato, se non di entrambi. “Ho visto il futuro – ha scritto sul New York Times il più stimato dei giornalisti americani, Thomas Friedman – e non è in America bensì in Cina”. Penalizzando la Cina con dazi del 34 per cento (poi portati a oltre il 140), l’India del 26 per cento, il Giappone del 24 per cento, i “vicini di casa” Canada e Messico del 25 per cento e l’Unione Europea del 20 per cento (con l’applicazione delle tariffe poi rinviata di tre mesi, mantenendo nel frattempo una “base” del 10 per cento) , Trump ha potenzialmente generato una società globale di mutuo soccorso antiamericana. Una coalizione informale che cercherà sì di negoziare una riduzione dei dazi, ma adotterà anche contromisure e svilupperà molto di più i commerci al proprio interno. L’America non riuscirà ad attirare gli investimenti prospettati da Trump e perderà preziose forniture di materie prime e alte tecnologie.
Il precedente di Nixon
Con ciò non intendo minimizzare gli enormi problemi a cui il mondo e noi europei in particolare andiamo incontro. Non sono d’accordo con quanti sostengono che i dazi di Trump non sono il più grave colpo economico e finanziario sferratoci dalla Superpotenza dalla Seconda Guerra mondiale. Per costoro, il presidente Nixon fece di peggio quando nel 1971 cancellò il “Gold standard”, ossia la convertibilità del dollaro in oro, onde alleggerire gli oneri gravanti sul bilancio americano. Ma Nixon negoziò subito con gli alleati per stabilizzare i mercati monetari e creare nuove istituzioni internazionali, e con l’appoggio di Henry Kissinger, il principe della diplomazia, indirizzò il mondo verso il benessere e la pace. Non ci considerò mai ladri o addirittura nemici come fa Trump, che per spregio sta spingendo tutti, lui compreso, verso la Seconda grande depressione, la drammatica crisi economica degli anni Trenta del secolo scorso. Trump, tra l’altro, ha falsificato i dati su cui ha basato i suoi dazi. Un esempio: ha considerato dazio l’Iva, che in Italia colpisce tutti i prodotti, anche domestici, non solo quelli americani o stranieri, e di cui comunque l’America ha l’equivalente, la “sales tax” o tassa sulle vendite, che funziona alla stessa maniera.
Rotto l’equilibrio
Con la Tax trumpiana il presidente americano non ha rotto solo l’equilibrio economico e finanziario globale degli ultimi ottanta anni, grazie a cui la Superpotenza ha raggiunto la massima prosperità della sua storia, ha rotto anche quello politico e militare peraltro già incrinato dai suoi disegni di paci ingiuste a Gaza e in Ucraina, costituendo i presupposti di uno sfaldamento dell’Europa e di un pericoloso scontro con la Cina e altre potenze asiatiche, obbiettivi che non si cura neppure più di nascondere. E infatti per quanto riguarda noi europei ha “premiato” l’Inghilterra per la Brexit, la dannosa (per gli inglesi) uscita dall’Ue, infliggendole dazi di appena il 10 per cento e ha risparmiato la Russia del presunto amico Putin spiegando che soffre già dure sanzioni. I giovedì e venerdì neri delle Borse la scorsa settimana e l’annuncio di Pechino di elevati controdazi, nonché le manovre aeronavali cinesi su Taiwan sono chiari segnali d’allarme. Trump ha eretto un Muro doganale di Washington attorno alla Fortezza America ma l’autarchia e l’isolazionismo non sono i pilastri su cui potrà reggersi. Il mercato americano non è il più grande del mondo, è inferiore anche al mercato europeo, e il dollaro non è la sola moneta di scambio esistente.
Sguardo rivolto al passato
Trump ha giustificato la sua dichiarazione di “Guerra ibrida”, se così possiamo chiamarla, con il “boom” o crescita industriale dell’America dal 1870 al 1920, asserendo che fu promosso dai dazi e in qualche caso dal blocco delle importazioni dall’estero. Ma fino allo scoppio della Prima guerra mondiale le merci e i macchinari importati con velieri e navi a vapore furono pochi e costosi, e la guerra arricchì di molto il Paese. Inizialmente l’America si espanse all’interno perché gli immigrati fornirono lavoro a basso prezzo e aumentarono i consumi, e più tardi perché la sua industria bellica divenne la massima fornitrice dell’Europa nel tragico conflitto. Trump avrebbe dovuto rivisitare gli anni Venti del secolo scorso, in particolare il 1925, come ha fatto il Washington Post, che ha trovato incredibili analogie tra le due epoche al punto da intitolare un suo articolo “L’America all’apice del trumpismo cent’anni fa”, un riferimento anche alla distruttiva politica sociale e all’oscurantismo culturale del Presidente. Forse avrebbe capito che l’Alleanza atlantica e l’Unione europea sono le fondamenta della civiltà occidentale, la più avanzata e democratica della storia dell’umanità, e che nemmeno la Superpotenza può fare a meno di esse.
Le analogie con il 1925
Rivisitiamo insieme il 1925. L’America è in stato confusionale. Ha perso quasi 200 mila soldati nella Prima guerra mondiale e quasi 700 mila persone nella pandemia della “febbre spagnola”, è alle prese con un’invasione di migranti, cinesi soprattuto, con il razzismo del Ku Klux Klan, le bande bianche armate e incappucciate, e con la cultura “woke” del tempo, la cultura del risveglio contro il proibizionismo che vieta “il diavolo alcool” e contro il conformismo politico e religioso. Alla Casa Bianca, un Presidente repubblicano ultra conservatore, Coolidge, è subentrato a uno più moderato, Harding, morto a metà mandato, al Congresso si esalta un capitalismo selvaggio e nei tribunali si condanna chi abbraccia il darwinismo, la teoria della evoluzione, non il creazionismo. La nuova generazione è la “me generation” ante litteram, quella dell’io, dei diritti e non dei doveri, che impazza al ritmo del Charleston, e la vita quotidiana è condizionata dalle mafie, innanzitutto quella italiana. Sono i cosiddetti “anni ruggenti” dell’America, come potere vedere una situazione simile a quella odierna, con il Covid al posto della febbre spagnola e con gli oligarchi al posto dei gangsters, ma con gli stessi problemi.
La situazione storica
La futura Superpotenza, per il momento non è ancora tale, reagisce alla Trump. Il Congresso blocca con una legge l’immigrazione dall’Asia, e in parte anche dal Sud America, Coolidge condanna come “antiamericano” il nascente socialismo europeo, e Washington non entra nella Lega delle Nazioni, l’istituzione antesignana dell’Onu, pur avendo contribuito a fondarla. Sia il potere legislativo sia quello esecutivo appoggiano l’eugenetica, la dottrina della selezione della razza, che consentirà di sottoporre a operazioni chirurgiche “i menomati” tra cui anche immigrati italiani. E’ uno dei periodi più bui dell’America e lo dimostra anche la sua politica estera. L’America è in possesso del Canale di Panama, di Haiti, delle Filippine e ha appeno lasciato il Nicaragua a un dittatore amico. Nel 1925 in Europa Hitler ha pubblicato “Mein Kampf” e Mussolini si è preso la responsabilità dell’omicidio di Giacomo Matteotti, ma questo non disturba gli americani. Henry Ford, il magnate dell’auto, duro antisemita, dice di ammirare il Fuhrer, e la Banca Morgan concede al Duce un primo prestito di 100 milioni di dollari. Se qualcosa dà fastidio all’America sono i fermenti unitari europei, con il leader francese Christide Briant che parla di “Stati Unti d’Europa”.
Personalità narcisistica e vendicativa
Il trumpismo? “Deja vu” dicono i francesi, già visto. Non è una novità. La novità è la personalità di Zio Donald con i suoi capelli gialli e il dito alzato, una personalità narcista vendicativa. Centinaia di migliaia di americani stanno già perdendo il lavoro e fanno la fame e presto toccherà anche a noi europei se non correremo subito ai ripari, decisi e uniti. Se lo ricordino i nostri leaders compresa la premier Meloni. Ce la faremo, anche se ci costerà “fatica, lacrime e sudore” (ma non sangue) come disse Churchill nella Seconda guerra mondiale.
Ennio Caretto