Secondo Trump “è un cane”, o peggio. Secondo Vance, il suo vice, “è una gattara senza figli”, una di quelle femministe che hanno distrutto i valori americani, Dio Patria e famiglia. Secondo molti trumpisti, “non è nata in America” bensì in Giamaica, il Paese del padre, o in India, il Paese della madre, e non può quindi candidarsi alla Presidenza, la stessa falsa denuncia sporta alle elezioni del 2012 contro il primo Presidente di colore degli Stati Uniti, Barack Obama. Secondo molti deputati repubblicani, “è un’estremista di sinistra”, socialista o comunista, fate voi. E secondo molti altri non rappresenta nessuno, nemmeno le minoranze, perché viene dalla élite borghese, con un papà economista e una mamma professoressa universitaria. Per il mondo trumpista, Kamala Harris le ha proprio tutte, è “fake” o falsa, è una strega intrigante, una carrierista corrotta, una politica infida e una donna di facili costumi. Neppure il presidente Biden, il suo mentore, trattato da demente dalla maggioranza dei repubblicani, aveva mai suscitato tanto astio.
Preoccupazione a destra
Diciamo subito che la vice di Biden non è la perfezione fatta persona e che non è affatto certo che vincerà le elezioni. Ma perché tanta demonizzazione? Perché Kamala Harris fa paura alla estrema destra americana come 12 anni fa le fece paura Obama che, dietro le quinte, è ora uno dei suoi più ascoltati consiglieri. Questa destra non si aspettava che nel giro di sole 24 ore la vicepresidente si assicurasse la nomina a candidato democratico alla Casa Bianca. Che il suo partito la appoggiasse entusiasta, spronato da Hillary Clinton, la grande sconfitta alle balorde elezioni del 2016 (ma aveva ottenuto oltre 3 milioni di voti popolari più di Trump), di cui Kamala si considera l’erede. Che sui social e sui media il tentato assassinio di Trump passasse di colpo in secondo piano e nei sondaggi lei salisse a due soli punti da lui o addirittura lo sorpassasse. E che, grazie al fatto che il Congresso democratico si svolgerà il 19 agosto, il calendario elettorale giocasse a suo favore fino a settembre, quando si scontrerà con Trump in almeno un dibattito alla TV.
“Né Trump né Biden”
Ma c’è un altro motivo d’allarme per l’estrema destra. Fino a due settimane fa, le elezioni sarebbero state di fatto un referendum su Biden, un Presidente troppo vecchio, troppo malato e troppo stanco contro cui Trump avrebbe avuto un gioco facile. Adesso saranno invece un referendum su Trump, che a 78 anni, l’età a cui Biden entrò alla Casa Bianca, incomincia a denunciare le stesse mancanze, e che si troverà di fronte a una donna di 59 anni notoriamente piena di energia, capace di mobilitare il voto femminile, che in maggioranza è antitrumpista. Non va poi dimenticato che lo scorso anno in America era nato il movimento “Neither Trump nor Biden”, Né Trump né Biden, teso a indurre i repubblicani e i democratici a scegliere altri candidati, come la Harris appunto. Il segnale più chiaro che la vicepresidente, la novità di queste elezioni, sta riscuotendo crescenti consensi è la cascata di finanziamenti che le è piovuta addosso e che ha indotto i repubblicani a chiedere il blocco di quelli riscossi da Biden, inferiori peraltro ai finanziamenti di Trump.
Il voto fluttuante
Questi, conviene ripetere, non sono però indizi sicuri che Kamala conquisterà la Presidenza. Per farlo, dovrà superare molti ostacoli, di cui tre davvero seri. Il primo sono gli evangelici, lo zoccolo duro dei conservatori, gli oltre 80 milioni di americani della “heartland”, il cuore continentale degli Stati Uniti, che si ritengono i guardiani del cristianesimo (anche dai cattolici) e che odiano l’Islam e i diversi. Il secondo sono il populismo e il sovranismo sfrenati di buona parte delle masse operaie e contadine delle stesse terre, che hanno fatto dei trumpisti una forza armata aggressiva. Il terzo sono le interferenze a cui il Presidente russo Putin potrebbe ricorrere per fare vincere le elezioni all’amico Trump, come accadde nel 2016, quando screditò con successo Hillary Clinton, e nel 2020 ma senza riuscire a screditare Biden. La Harris eviterà una sconfitta soltanto se saprà convertire alla causa democratica il cosiddetto voto fluttuante, quello degli indecisi, e attrarre i giovani alle urne da un lato, e neutralizzare le manovre russe dall’altro.
Il punto debole
La maggioranza dei politologi americani ritiene che il punto debole della vicepresidente sia la sua formazione in California. La California è il laboratorio politico e tecnologico degli Stati Uniti e una potenza economica mondiale, un serbatoio di intellettuali, miliardari e “popstar”, multiculturale e multirazziale, ed è da sempre riformista come lo Stato di New York, quasi aliena rispetto al resto del Paese. La Harris ha bisogno di un compagno di corsa bianco, un governatore di un grande Stato industriale che conosca e parli agli evangelici e agli operai e ai contadini, e ne è così consapevole che ha voluto tenere i suoi primi comizi davanti alle Chiese e ai sindacati, affermando che “il futuro dell’America dipende da voi”. I sindacati furono cruciali per l’elezione di Biden, un loro protettore, a Presidente nel 2020, ma negli ultimi anni hanno fatto parziale marcia indietro, plaudendo agli attacchi di Trump all’Europa e alla Cina, da lui dipinti come pericolosi concorrenti.
Le elezioni si sono riaperte
I democratici sono convinti che Kamala Harris supererà agevolmente i tre ostacoli, ma la realtà è un’altra: le elezioni, che pareva dovessero sancire il trionfo di Trump, si sono riaperte di colpo, e potrebbero essere condizionate da nuovi e imprevedibili colpi di scena a favore dell’uno o dell’altra. Sul loro esito al momento si possono fare solo scommesse, non previsioni, anche perché la Harris non è invulnerabile, al pari di Trump. Molti politologi, a esempio, ricordano che non è stata una straordinaria vicepresidente, che per la maggior parte del tempo è rimasta in ombra, che non ha risolto il problema dell’immigrazione, la “mission impossible” affidatale da Biden, e ha cambiato troppo spesso consiglieri e guru elettorali. E nei suoi confronti vige una doppia riserva da parte di quegli elettori che, sebbene neghino di essere razzisti e maschilisti, non hanno accettato la elezione del primo Presidente di colore, Obama, nel 2008 e 2012: Kamala è una donna ed è di colore, quindi ineleggibile. Un’aberrazione per una democrazia.
Un curriculum eccezionale
Che la Harris sia qualificata per la Presidenza è fuori discussione. Si è tenuta in disparte come vice ma Biden la ha sempre consultata prima di prendere una decisione. E ha un curriculum eccezionale. Ha lavorato in gioventù per Alan Scranton, un potente senatore democratico, si è laureata in legge e ha esercitato l’avvocatura, ha diretto la Procura di San Francisco prima e della California poi, e nel 2016 è stata eletta senatrice a Washington con l’aiuto di Obama. Nel 2020 si era candidata alla Casa Bianca e aveva stravinto il primo dibattito televisivo alle primarie, ma la macchina del partito si era pronunciata per Biden, per otto anni il vice di Obama stesso. Più tardi Biden, sollecitato dal suo ex capo, non aveva esitato a prenderla con sé. Un percorso ben diverso da quello di Trump, un uomo d’affari e personalità della Tv eletto presidente nel 2016 senza esperienze di servizio pubblico né di esercizio di potere politico e dunque un’incognita, come poi si vide. Date le analogie dei curriculum non ha torto chi ritiene la Harris la versione femminile di Obama.
Tra le più a sinistra
E’ vero che a Washington Kamala fu tra le più a sinistra dei senatori democratici, ma lo fu nel senso che combatté per i diritti umani e civili, le stelle che guidano la sua navigazione nella politica, cioè per i poveri, per i disoccupati, per le minoranze, per i diversi, per i discriminati. E la vicepresidente ha imparato da Obama e da Biden che il partito democratico è una coalizione equilibrata tra sinistra, centro e destra, non il feudo di un capo repubblicano estremista che non ha nulla a che vedere con predecessori che unificarono il Paese quali il generale Ike Eisenhower, il vincitore del nazismo, e Ronald Reagan, il vincitore del sovietismo. Di più: c’è un tratto della Harris che attrae altresì i repubblicani storici, quello del tutore della legalità e dell’ordine. Come procuratrice, Kamala lottò contro il crimine sia spicciolo sia organizzato e mise ordine sia nelle strade e nelle piazze sia nelle carceri con misure a tratti controverse. Oggi sta rendendo chiaro che farà lo stesso in città come San Francisco, in parte pericolose e disastrate.
La vita privata
E la sua vita privata? Ha davvero le macchie che dicono i trumpisti? La risposta è no, i trumpisti dovrebbero guardare alle trave negli occhi dell’uomo Trump, ripetutamente inquisito e processato dalla magistratura, anziché ai fuscelli negli occhi della Harris. Kamala (il nome significa Loto) è senza figli, ma non è una gattara: dieci anni fa si è formata una famiglia sposando un avvocato bianco ed ebreo, Douglas Emhoff, divorziato e con due bambini, che la difendono spiegando “per noi è un terzo genitore”. Gli evangelici l’accusano di praticare l’induismo perché da bambina la madre, trasferitasi in Canada, le fece frequentare un tempio indù, così come accusarono Obama di essere musulmano perché in Indonesia la madre, una bianca, lo iscrisse a una scuola islamica, ma Kamala è cristiana, di fede battista. E per quanto riguarda la sua nascita, essa ebbe luogo a Oakland nella baia di San Francisco ma dal lato opposto. Se ha una “colpa” semmai, se tale si vuole definire, è di avere sacrificato la sua vita privata alla carriera.
Il 50° Presidente
Sinora, pochi media hanno messo in evidenza un particolare che conferisce un significato simbolico alle elezioni di quest’anno, ed è che gli americani sceglieranno il loro cinquantesimo presidente. Tra i loro miti vi è quello che l’America è un crogiolo di razze e di culture. A novembre scopriremo di che crogiolo si tratta: se quello di Trump, secondo cui fondersi vuol dire mantenere immutabile il passato di dominio bianco e di vocazione militarista e imperiale del Paese, o quello della Harris, una asia-afroamericana, secondo cui fondersi vuole dire invece incominciare a cambiare il “sistema America” e ad avviarlo a un futuro più pacifico e più giusto.
Ennio Caretto