CASALE – Torniamo indietro nel tempo. Torniamo a quella travagliata notte in cui centinaia di persone manifestarono davanti a Palazzo San Giorgio, allo scopo di far cambiare idea al sindaco Giorgio Demezzi e di rifiutare l’offerta di Schmidheiny per revocare la costituzione di Parte civile. Tecnicamente e giuridicamente non sarebbe cambiato nulla, al di là dei 18 milioni in più nelle casse del Comune, ma la gente chiese di anteporre il principio alla ragione: il Comune, le istituzioni, dovevano restare al fianco delle vittime. Contro la decisione della Giunta Demezzi, scesero in campo l’opposizione casalese, l’intero centrosinistra e il Governo Monti. Ora, tre anni dopo, le parti si sono invertite. Anche per questo stride particolarmente l’assenza della Provincia di Alessandria, della Regione Piemonte e del Governo, alle udienze preliminari del così detto processo “Eternit-bis”.
A sollevare per primo il problema è stato il vicepresidente del Consiglio Comunale di Casale e consigliere di minoranza di Palazzo Ghilini, Federico Riboldi di Fratelli d’Italia, che ha chiesto alla Presidente Rossa di riferire in aula. “L’assenza della Provincia di Alessandria certifica la colpevole assenza ad ogni livello dell’Ente, resa ancor più grave dalla delicatezza dell’argomento. Mentre a Casale muore una persona a settimana – prosegue Riboldi – la Provincia non si presenta alla prima udienza preliminare, negando di fatto il proprio appoggio alla procura torinese e alle centinaia di famiglie coinvolte”.
Alle parole di Riboldi hanno fatto eco anche quelle di Nicola Sirchia (FI) che ha attaccato anche il Governo, definendo l’atteggiamento di Palazzo Chigi come la solita “patacca renziana”.
Non si è fatta attendere la risposta della presidente Rossa (PD) e del vicepresidente Angelo Muzio (segretario del PD casalese).
“Nel rispetto della deliberazione del Consiglio provinciale del dicembre 2014, nel rispetto delle migliaia di vittime e dei loro familiari – cita una nota ufficiale – la Provincia di Alessandria si costituirà parte civile al processo, una volta superate le verifiche preliminari”.
Stessa posizione dalla Giunta Chiamparino. In poche parole entreranno eventualmente nel procedimento, ma solo se il magnate svizzero sarà rinviato a giudizio. Il problema vero è che il rischio che il processo muoia in fase embrionale è altissimo, e anche per questo sarebbe stato fondamentale quell’appoggio formale, così come era stato invocato nel 2012, al fianco dei familiari delle vittime. Anche questa volta bisognava anteporre il principio ai tecnicismi giuridici. Al di là delle scuse di palazzo e delle note stampa, l’assenza di Governo, Regione e Provincia è gravissimo e non ha precedenti in questa vicenda. Delusione dimostrata anche dallo stesso Procuratore capo Raffaele Guariniello che avrebbe voluto un maggior supporto delle istituzioni, già in questa fase processuale, e dall’avvocato casalese Roberto Nosenzo, da tantissimi anni impegnato come difensore di parte civile, nei vari processi contro l’Eternit. “Mai come in questo momento c’era bisogno della presenza delle istituzioni – ha detto durante la conferenza «Eternit: il coraggio di conoscere, il bisogno di andare oltre» – tecnicamente chi non si è costituito per l’udienza preliminare potrà farlo nell’eventuale processo, ma il rischio che non si arrivi ad un rinvio a giudizio è alto. Anche per questo bisognava dare il proprio appoggio sin dalla fase preliminare”.
Infatti le possibilità che venga istituito un nuovo processo sono tutt’altro che alte. Di fatto al magnate svizzero è stato contestato un reato diverso ma si riferisce comunque alla stessa condotta. Prima fu disastro doloso permanente, ora omicidio. Ma il fatto è lo stesso: la produzione (omettendo dolosamente le misure di sicurezza sul lavoro) e la vendita di un prodotto, nonostante fosse a conoscenza che avrebbe causato una catena di decessi. Nella fattispecie la Procura ha contestato la morte di 258 persone. Ad uccidere già nella culla il processo, potrebbe intervenire un principio base del nostro Ordinamento, il “ne bis in idem”, stabilito dall’art. 649 del codice di procedura penale, nel quale viene stabilito che nessuno può essere processato più volte «per il medesimo fatto».
Dario Calemme