Sara Reginella, classe 1980, lavora come psicologo clinico, giuridico e psicoterapeuta libero professionista. Nel 2016 si diploma in Regia e Sceneggiatura presso l’Accademia Nazionale del Cinema di Bologna; parallelamente all’attività di psicologa, coltiva in modo indipendente un percorso di studi nel ramo cinematografico con approfondimenti in produzione, ripresa e montaggio, recandosi personalmente in territori di guerra, divenendo attiva in campo documentaristico, dove i suoi lavori integrano l’interesse per le dinamiche psicologiche con l’attenzione per l’attualità e uno sguardo che mai dimentica le frange socialmente più vulnerabili.
Quando ha iniziato a occuparsi del Donbass?
SR: ho iniziato a occuparmi del Donbass nel 2014, con lo scoppio del conflitto, perché è da quell’anno che quell’area inizia a vivere momenti terribili; molti si chiederanno che cosa fosse successo. Ho scoperto casualmente, per via di un contatto sui social che, quando c’erano bombardamenti, nessuno dei nostri giornali ne parlava nonostante persone che morissero quotidianamente. Parliamo di una dimensione orwelliana in cui se ci dicono che “2+2=5” ci crediamo. Da lì è iniziato tutto. Quella che vediamo è una tragedia nella parte finale, che dura da 8 anni.
Qual è l’approccio da tenere?
SR: occorre un approccio che tenga insieme tutte le prospettive, a più voci; se noi cerchiamo la pluralità, occorrono tutti i punti di vista. Qui la guerra sembra scoppiata il 24 febbraio, un’informazione democratica ci direbbe che la guerra c’è da 8 anni andando più in profondità. Nel momento in cui c’è una semplificazione dell’informazione e alcune notizie non sono date, allora si sta facendo un lavoro per portare le persone a schierarsi, alimentando la guerra nella loro mentalità. L’effetto sarebbe diverso, nella pubblica opinione, se si dicesse che questo conflitto è iniziato 8 anni fa e come i motivi sono più complessi di quelli che ci dicono ora, le persone sarebbero in grado di comprendere, mentre lo schierarsi porta le persone a un percorso di odio e di morte, che è quello cui stiamo assistendo. Siamo di fronte a un fenomeno di russofobia, dove artisti russi non possono esprimersi solo per colpa della cittadinanza, ragazzini russi sono accerchiati nelle scuole e bullizzati, diventa difficile dire che non si stia imboccando un percorso d’odio e chi è per la pace non può che denunciare tutto questo.
Avrà visto che il fenomeno è molto esteso, comprese le manifestazioni della pace, abbastanza ambigue nell’invocare la pace, ma armando…
SR: non sono state ambigue, sono state esplicite, il mondo in cui Meta/Facebook ci dice che va bene esprimere l’odio per i russi, noi non ci stupiamo se su un palco per la pace un politico dice “armiamo l’Ucraina” che vuol dire alimentare la guerra e quindi altre morti. Nella mia città è stata fatta una manifestazione per la pace, dove una militante ha preso la parola per dire “guardate che la guerra c’è da 8 anni e dobbiamo stare vicini a tutte le vittime della guerra” ed è stata accerchiata per non farla più parlare. Nelle manifestazioni della pace dove sventolano le bandiere rossonere dei collaborazionisti ucraini di Hitler. Siamo di fronte a un mondo di odio, in cui ci sono morti di serie A e di serie B, in cui i morti del Donbass di questi otto anni non interessano a nessuno. Il percorso che sta intraprendendo la nostra società è un percorso di guerra che forse si allargherà fino a coinvolgere anche noi.
Cosa hai visto nelle sue tre esperienze in Donbass?
SR: ciò che ho visto l’ho raccontato nei miei documentari, l’ultimo Start up a war. Psicologia di un conflitto, e l’ho descritto nel libro-reportage narrativo Donbass, la guerra fantasma nel cuore d’Europa (edito da Exòrma, 2021), io ho attraversato per chilometri villaggi completamente distrutti e rasi al suolo, con palazzi sventrati per i colpi dell’artiglieria che, per 8 anni hanno vissuto e continuano a vivere una guerra; proprio in questi giorni le forze ucraine hanno colpito con un missile un’area di Doneck, con decine di morti. Lì continua a esserci una guerra perché la popolazione del Donbass non ha riconosciuto come legittimo il governo creatosi all’inizio del 2014 a seguito di un cambio di regime che è stato identificato come un golpe da quelle popolazioni, un cambio di governo dovuto all’ingerenza dell’Occidente. Dal momento in cui il Donbass si è opposto al cambio e ha autoproclamato, con un referendum, le repubbliche popolari di Doneck e Lugansk: la risposta del governo ucraino è stata solo di tipo militare e per 8 anni sono continuati scontri in quelle zone. Ho visto le persone lasciate morire di fame perché, dopo il referendum, l’Ucraina ha congelato gli stipendi agli statali e le pensioni a invalidi e anziani, che sono stati reintegrati dalla Federazione Russa, azioni molto forti contro queste popolazioni, di cui non è importato nulla a nessuno.
Ho visto gli scantinati, dove i bambini del Donbass, per otto anni, si sono nascosti quando fuori sparavano. Di questi bambini, disabili, anziani e donne non è mai importano nulla a nessuno. Questi morti non sono importanti perché non avevano interesse a inserirsi nell’orbita politica, economica e militare dell’Occidente, per questo non erano importanti.
C’erano le condizioni e le modalità per non arrivare a questo punto, pensando agli accordi di Minsk, cosa ne pensa?
SR: gli accordi di Minsk vanno ripresi e possono portare alla pace, ma non gliene importa nulla perché qui sta prevalendo una linea non contraria alla guerra. Quando la Russia ha chiesto rassicurazioni affinché l’Ucraina non entrasse nell’orbita della NATO, nessuno ha voluto dare rassicurazioni. Pare evidente che fare la guerra sia l’unico interesse, con il dramma di una guerra che ha tutte le premesse per uscire da quei confini.
La gente non si accorge di quello che sta accadendo perché sta prevalendo un atteggiamento di odio.
Come vedi l’evoluzione che ci aspetta in questa situazione?
SR: La vedo drammatica perché molte persone hanno perso la lucidità, non s’interrogano sulle motivazioni di questa guerra e sono pronte all’odio, per cui la pubblica opinione è preparata a una guerra, già la guerra economica che si sta facendo provocherà un suicidio a livello economico e il rischio c’è che si estenda sul piano militare.
Il problema è che le persone, non essendo lucide in questa fase, vede solo una parte del conflitto e non vede ciò che è successo in otto anni, ho visto villaggi completamente distrutti, bombardati, una tragedia con migliaia di vittime, ma delle popolazioni di lingua russa del Donbass non importa nulla a nessuno.
Non sono una persona religiosa, ma credo che la Chiesa e le istituzioni spirituali possano fare molto per aiutare le persone a ragionare, a guardare dentro di sé per cercare la pace dentro di sé, una pace che sia lucida, basata sulla razionalità oltre che sui sentimenti, perché i media stanno guidando la società verso un percorso di guerra e, anche da psicoterapeuta, dico no, fermiamoci e chiunque voglia fare questo percorso con me per dire questo messaggio semplice, “fermiamoci”, è un mio alleato.