A proposito di cinghiali pubblichiamo un’intervista al Professor Andrea Mazzatenta, docente di Fisiologia presso la facoltà di Medicina – Univ. “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara e di Psicobiologia e Psicologia Animale presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Teramo.
LB: Sentiamo spesso parlare di un problema, anche di un pericolo riguardante i cinghiali, ma per questo argomento, trova poco spazio la divulgazione scientifica: cosa ci può dire dal Suo punto di vista?
AM: La classificazione di un fenomeno in problematico, di allarme, allerta, eccessivo, normale o altro secondo il mio parere di scienziato dovrebbe basarsi su una categorizzazione numerica che a sua volta necessita di alcuni parametri che nel nostro caso sono ad es. censimento animali secondo criteri scientifici, descrittori dell’habitat in oggetto con lo studio della capacità portante dell’ambiente (termine tecnico carrying capacity), ecc. In assenza di questo non è possibile comprendere l’entità del fenomeno e si potrebbe incorrere in errori in eccesso o in difetto nel veicolare la comunicazione al pubblico.
LB: Quando comincia questo “problema” dei cinghiali e chi l’ha provocato?
AM: Negli anni ’50 iniziano importanti immissioni di “contingenti” (fonte INFS) di animali provenienti dall’est Europa, immissioni per scopi venatori senza alcuna attenzione alla genetica degli animali immessi in un territorio come quello italiano che, secondo gli studi disponibili, aveva tre sottospecie differenti da quelle immesse.
LB: Il mondo della caccia, ATC e CO, nella Sua esperienza, sono adeguatamente formati sulle concrete possibilità per ridurre gli incidenti? Che cosa dovrebbero fare per migliorare?
AM: Ritengo che il problema degli incidenti sia drammatico e che dovrebbe essere affrontato da diverse figure Istituzionali sopra ogni logica o aspetto di parte.
LB: Il mondo dei cacciatori, nella sua esperienza, da chi è composto e da chi faremmo meglio a stare più in guardia?
AM: Per la mia conoscenza del mondo venatorio osservo almeno due anime quella che amo definire dei cacciatori all’antica o ’romantici’ che hanno attenzione all’ambiente e alla pratica venatoria e gli altri che vivono questa pratica più come una sorta di sfogo della vita odierna per cui basta sparare sempre e ovunque.
LB: Molti tra giornalisti, agricoltori e politici chiedono un censimento dei cinghiali: sarebbe davvero utile? Che cosa permetterebbe di fare e che costi sarebbero ipotizzabili?
AM: I censimenti sono fondamentali per la corretta gestione della fauna, però, nel caso dei cinghiali, quelli tradizionali hanno dimostrato scarsa utilità; personalmente, con il mio gruppo di piloti, abbiamo sviluppato una nuova tecnica denominata wirto, che prevede l’impiego di droni equipaggiati con termocamere e dei software per il conteggio e la raccolta di altri parametri, addirittura il rating di defecazione (che indirettamente serve per stabilire sia la fisiologia sia il comportamento dell’animale). I costi sono contenuti.
LB: Molti chiedono maggiori “poteri speciali”, senza specificare bene cosa significhino (abbattimenti ogni giorni e a ogni ora?) per la sicurezza stradale: questo è sicuramente un grande argomento da approfondire, che sa dirci?
AM: Basandomi sui dati presentati nei piani faunistici venatori, ove esistenti, è palese che all’aumentare dello sforzo di caccia (intendo ogni forma di pressione antropica sul cinghiale, incluse le gabbie) è riportato un aumento degli incidenti e dei danni all’agricoltura.
LB: Ci sono esperienze di successo per sistemi dissuasori per evitare incidenti? Che costi avrebbero?
AM: Sono stati realizzati, con dei progetti LIFE (a livello europeo), degli studi e delle sperimentazioni molto positive con sensori e dissuasori posti a bordo strada nelle aree ad alto rischio incidente, che presentano costi contenuti.
LB: In questi giorni ha fatto discutere un incidente causato da un cinghiale su un’autostrada: non dovrebbero essere più controllate?
AM: Premesso che il cinghiale non ha volontà suicide, ma si tratta sempre di incidente, tutti noi dovremmo mettere in atto prudenza sulle strade, attenendoci al codice della strada ed è opportuno che siano verificate le barriere esistenti nelle strade a scorrimento veloce, onde evitare l’intrusione di questi ungulati. In caso di reti autostradali, esistono i concessionari cui chiedere conto della manutenzione.
LB: Lei ha sostenuto, in un recente convegno, che la maggior parte degli incidenti capitano all’apertura della caccia… e se si arriverà a cacciare tutto l’anno, il rischio sarà sempre più alto: possiamo avere qualche dato su questi collegamenti? È già stato fatto qualche studio in proposito?
AM: La mia affermazione è frutto dei dati riportati in studi ufficiali dell’ASL-servizio veterinario, che in un ampio report fornisce i dati degli incidenti, il cui aumento risulterebbe statisticamente significativo nel periodo di apertura della caccia pertanto, se la matematica dice il vero, estendendo i periodi di cacciabilità anche in orari notturni e nelle riserve, si rischierebbe di aumentare il rischio di collisione/incidenti a 360°.
LB: Nella Sua esperienza, che cosa dovrebbe fare assolutamente un ATC/CO? E cosa assolutamente NON dovrebbe fare?
AM: Non mi permetto di dare suggerimenti agli ATC, ognuno fa il suo mestiere, tuttavia ritengo che sia necessario un intervento Istituzionale e scientifico sulla questione da parte di Enti terzi al fenomeno.
LB: Dietro i cinghiali è nato un vero e proprio business molto spesso immerso in zone grigie se non di vero e proprio nero da un punto di vista economico e fiscale, che esperienza si è fatto?
AM: É normale che in un periodo di crisi economica si cerchino strade alternative e potrebbero essere percorse senza necessariamente trasformare il cinghiale in un problema di ordine pubblico; ad esempio la Regione Abruzzo consente tre capi stagione a ogni cacciatore, questa via potrebbe essere un incentivo alla regolare attività.
LB: Oltre l’aspetto dell’evasione fiscale, merita un appunto anche un problema che riguarda tutti i normali partecipanti alle sagre (non cacciatori): quello sanitario! È vero che la caccia prolungata ha conseguenze sulla qualità della carne?
AM: Questo è un aspetto che ho discusso con i colleghi veterinari e loro mi suggeriscono il problema della frollatura delle carni che, in animali lungamente stressati nelle caccia in braccata e intrappolati nelle gabbie, fa aumentare il cortisolo (ormone dello stress) che determina il consumo del glicogeno, rendendo la frollatura delle carni difficile, con conseguenti problemi nella edibilità delle carni stesse.
LB: C’è una Regione italiana o uno Stato europeo che sta affrontando questo problema, come si sarebbe detto una volta, “da manuale”?
AM: Nonostante l’attività di ricerca di molti gruppi abbia svelato che le procedure siano tendenzialmente erronee, non mi risultano impegni in controtendenza, cioè atti alla riduzione del conflitto antropico con il cinghiale ottenendo invecchiamento e riduzione numerica delle popolazioni.
LB: Può spiegare come funziona la mentalità di un cinghiale? Com’è strutturato e che effetto fa la caccia a livello di ciclo riproduttivo?
AM: La struttura sociale del cinghiale è basata sulla famiglia matriarcale, con a capo una femmina anziana, che ha con sé i piccoli dell’anno in corso e qualche piccolo che è sopravvissuto delle precedenti generazioni, in condizioni naturali ne sopravvive uno solo e, comunque, c’è un “turnover” importante nei giovani, che sono le prede d’elezione di altri animali, lupo, volpe e poiana. Più famiglie di femmine, con un loro intorno (home range), rientrano in un territorio di un grande maschio, detto salengano. La struttura sociale è così contraddistinta. Quando si va a rimuovere una di queste matrone, si mette in moto un meccanismo di sopravvivenza della specie, per cui tutte le figlie che erano con lei, anche di pochi mesi (6) entrano in estro, mentre con la matrona queste non potevano essere fecondate per una serie di motivi legati alla comunicazione con i feromoni. Così facendo quella famiglia che avrebbe prodotto 4/5 cuccioli da una femmina anziano, di cui forse uno sarebbe sopravvissuto, in questo contesto avremmo 3/4 femmine degli anni precedenti che producono a testa, data la giovane età, 10/12 cuccioli, ottenendo un branco di una quarantina di componenti. Un aumento esponenziale. Va detto che le matrone sono le prime a morire perché prima fanno scappare giovani e cuccioli, e lo stesso vale per i grandi maschi. Difatti, effetti simili si hanno anche con la rimozione dei grandi maschi, andando a dare il via ai giovani maschi che, frammentando il territorio del grande salengano, portano a un’esplosione della popolazione.
LB: Secondo Lei, in definitiva, la soluzione quale potrebbe essere?
AM: Dal mio punto di vista di biologo è necessario, stante la situazione attuale, di far invecchiare la popolazione e farla stabilizzare in un territorio, riducendo le transumanze, con una riduzione degli incidenti. Per far questo occorrerebbe introdurre le free shoot fire zone, aree dove non si può sparare di dispersione degli animali, soprattutto bordo strade, nei dintorni degli abitati e nei dintorni di parchi e aree naturali. Questo perché gli animali inseguiti e sottoposti a pressione tendono a rifugiarsi nelle zone dove non si può sparare, che sono paradossalmente le strade, le case e le riserve. Se noi allarghiamo le zone di non cacciabilità, diluiamo la presenza di animali nei centri abitati e nei bordi stradali, riducendo il numero di incidenti, che è la cosa più importante. Per quanto riguarda gli agricoltori ci sono già alcune strategie, come i pascoli a perdere e zone di incolto: non +è detto che i cinghiali vogliano sempre e solo un certo tipo di coltivazione, se ci sono altre soluzioni, possono preferirle. Dovrebbe essere condotto uno studio sulle coltivazioni più appropriate per le aree ad alto rischio, in modo tale da consentire guadagno all’agricoltore e limitare i danni da cinghiale. Le cose si possono risolvere, ovviamente con il ragionamento scientifico.
Luca Beccaria