Caro amico mio,
un paio di anni fa mi avevi chiesto di scrivere insieme, in un giorno futuro, la tua storia: quella di un ragazzo che aveva conosciuto la malattia quando era solo un bambino, ancora troppo piccolo perché fosse giusto frequentare il reparto di un ospedale. Più che una testimonianza, doveva essere una guida su come comportarsi tra le lungaggini burocratiche del sistema sanitario. Due mesi fa, quando ti sono venuto a trovare in ospedale dove eri stato ricoverato per alcune complicazioni, rimasti soli, hai rotto il silenzio con l’ultima frase che avrei voluto sentire: “se vogliamo scrivere quella storia, dobbiamo sbrigarci”. “Ne hai superate tante. La scriveremo quando avrai passato anche questa”. Ti avevo risposto. Così. D’istinto. Speranzoso nell’avere ancora molto tempo a disposizione. Ho avuto torto. Non c’è stato il tempo.
Oggi è la mia professione a costringermi a scrivere di te. Un compito mai facile quando si è troppo coinvolti, oltre al fatto che non può bastare qualche colonna di un giornale, per raccontare la fantastica persona che eri.
Siamo cresciuti insieme. Eravamo così diversi. Tu un bambino tranquillo, io un uragano. Forse per quello andavamo così d’accordo. Resteranno indimenticabili i pomeriggi trascorsi a giocare insieme. Quanto erano belli, agli occhi di un bambino, l’aeroporto o il castello medioevale della Lego, smontati e costruiti decine di volte. Quante partitelle a calcio con Matteo, terzo componente di un trio inseparabile. Sei stato il primo della compagnia ad avere il Nintendo 8 bit, Super Mario, il gioco delle olimpiadi estive ed invernali. Il primo a poter usare un Pc 486 con “addirittura” 500 kb di memoria. Diventasti subito un piccolo genio. Il migliore tra noi ad usare quel computer che, all’epoca, non era un oggetto per bambini. Io me la cavavo. A Matteo il computer, invece, non interessava proprio. Lui preferiva di gran lunga il pallone. Fu il primo tassello di quella che poi è diventata la tua vita, la tua grande passione: l’informatica.
Un inverno mi ospitasti anche qualche giorno in montagna. Vi raggiunsi grazie a papà Ezio che mi venne a prendere a Frassineto. Io che arrivavo da Napoli e che nella mia vita avevo visto solo il mare, mi ritrovai in mezzo a quel deserto bianco, con gli sci ai piedi ad imparare a scendere a spazza-neve.
Il tuo travaglio iniziò quando avevamo una decina di anni. Al termine della quinta elementare. Eravamo ad un torneo di calcio, o forse una festa di paese, il ricordo è un po’ offuscato. Durante la cena non stavi bene, dovevi andare sempre in bagno. Le cose non migliorarono nei giorni successivi e poco dopo iniziò il tuo peregrinaggio tra i reparti degli ospedali pediatrici. Per anni hai trascorso interamente l’estate in un letto del Gaslini di Genova, per controllare quella malattia che aveva colpito il tuo intestino. Ero troppo piccolo per capire di più. Gli anni successivi, quelli delle superiori, a gestire i danni arrecati dai tanti farmaci che eri costretto ad assumere.
Poi fortunatamente sei riuscito a vivere in modo sereno per molti anni. Quelli dell’adolescenza, quelli delle prime ragazze, delle feste della Leva, quelli in cui hai conosciuto Alessia che ti ha poi accompagnato per tutta la vita. Il Sobrero, il Politecnico di Pavia, la laurea in Ingegneria informatica. “Il primo laureato di tutta la mia famiglia” diceva con orgoglio papà Ezio. Il lavoro che tanto amavi a Milano. I mille progetti. L’università e la carriera, come spesso accade agli amici d’infanzia, ci avevano divisi, ma non ne hanno mai immutato l’affetto. Bastava vederci pochi giorni all’anno, per aggiornarci e far sembrare che non ci fossimo mai separati.
Qualche estate fa mi avevi confidato che il tuo fegato, non funzionava più. Bisognava “cambiarlo”. A Milano quando tutto sembrava pronto, arrivò la tegola più pesante. Il trapianto non si poteva fare perché quel fegato malato era attaccato da un tumore. “Non sprecano un organo, con chi ha poche speranze di vivere”. Mi avevi detto con lucida consapevolezza. Ma non ti eri arreso. Avevi iniziato una battaglia tra uffici dell’Asl e con le varie commissioni sanitarie. Perché a Parigi c’era chi ti dava la speranza di poter sopravvivere, ma serviva la loro autorizzazione. E con determinazione l’hai ottenuta. Sei stato praticamente un anno nella capitale francese, non è stato facile né per te, né per la tua famiglia. Ma ce l’avevi fatta. Le cose sembravano andare bene. Hai combattuto prima il tumore, poi ti sei sottoposto al trapianto. L’operazione era andata benissimo. Ti sono venuto a trovare a Parigi non molti giorni dopo, e sembravi completamente rinato. Stavi bene, ti sentivi bene. Ti era ritornata la voglia di vivere e di progettare. Volevi risistemare casa, pensavi a sposarti.
Hai trascorso quasi un anno senza preoccupazioni. A lavoro ti avevano addirittura assegnato un progetto importante, ed avevi accettato la sfida con orgoglio. Poi circa tre mesi fa l’ennesimo uragano a sconvolgerti la vita. La possibilità che quel male incurabile tornasse era un coin-flip, e il destino ancora una volta ha voluto accanirsi contro di te. Quando ci siamo visti al Santo Spirito prima e a casa tua poi, consapevole mi hai confidato la tua sensazione. “Dario, questa volta non ce la faccio”. Speravo ti sbagliassi. Speravo che fossi solo giù di morale per l’ennesima brutta notizia. Come sempre ti ho invitato a non arrenderti, a combattere. Ma in realtà non ce n’era bisogno. Non ho mai conosciuto persona più coraggiosa e resiliente di te. Dopo circa un mese l’ok da parte dell’istituto oncologico meneghino per l’inserimento in un protocollo sperimentale. Un raggio di speranza, spento velocemente dalla constatazione della realtà. Era troppo tardi.
Dopo le feste di Natale il tuo messaggio. “Volevo avvertirti che sono in Ospedale”. Poche parole ma che custodivano intrinseche la consapevolezza che sarebbero potuti essere i tuoi ultimi giorni. Passavo a trovarti prima di andare a lavoro. Quanto bastava per scambiare due parole. L’ultima volta è stata venerdì. Ti avevo visto più sereno rispetto i giorni precedenti. Mi hai sorriso, mi hai mostrato il pollice in alto, come se le cose andassero bene. Come era tua abitudine, eri tu a confortare chi ti stava attorno.
Quando sono tornato nel tardo pomeriggio, eri già avvolto da un sonno irreversibile. Un’ora e mezza dopo hai esalato il tuo ultimo respiro. Attorno a te c’era la tua famiglia, c’era Alessia che non ti ha lasciato nemmeno un secondo. In un attimo sei scomparso, hai smesso di soffrire. Non scomparirà però il ricordo di chi ti ha voluto bene, di chi ha avuto la fortuna di conoscerti. Resterai indelebile nei cuori di tutti noi, per la tua straordinaria bontà d’animo, la brillante intelligenza, l’infinito coraggio, l’incredibile attaccamento alla vita.
Ciao Simone, amico di sempre.
Dario Calemme