CREA – Forse non è noto a tutti come Cesare Pavese trascorse una parte della sua vita nel Casalese e qui ne trasse ispirazione per i sui scritti. In questo contesto il Santuario di Crea ha ospitato sabato scorso un incontro, condotto dallo scrittore Claudio Galletto, sulla sua figura. Incontro che ha coinvolto il professor Dionigi Roggero (ex-insegnante e storico) che ha collocato Pavese nel contesto casalese. L’antropologo Piercarlo Grimaldi che ne ha tracciato un profilo socio-antropologico e l’attrice Patrizia Camatel che ha intercalato i relatori con letture tratte dai libri dello scrittore langarolo. .
Ha dato il benvenuto il rettore del santuario mons. Francesco Mancinelli che ha messo in luce la spiritualità del luogo dove “si può passeggiare in solitudine, dove la solitudine non è allontanamento dal mondo… ma significa arricchire la propria umanità” e come Pavese amasse passeggiare al Monte.
Il professor Roggero ha collocato Cesare Pavese nei luoghi da lui frequentati e le figure che incontrò. Crea fu un luogo importante per lo scrittore poiché proprio qui incontrò il ‘mito’. Quel mito che si incarnava nell’infanzia, nelle sue Langhe, nella cultura classica e che diventava, in ultima analisi, concezione del mondo e della vita. Scelse nel ‘mito’ ,la verità che coincide con la favola, un sentimento antico che precede le categorie dominanti della sua epoca come la dialettica, il razionalismo, lo storicismo e le ideologie. Negli anni della guerra si rifugiò, sotto falso nome, nel Collegio Treviglio di Casale dove conobbe il padre somasco Giovanni Baravalle a cui rimase legato per il resto della vita; questo frate fu uno dei pochi a penetrare l’animo dello scrittore e in una relazione al CMC di Milano disse ”Pavese non è ateo!” citando una lettera a lui destinata dove si leggeva “Forse non sono degno di avvicinarmi a Dio” e ricordando come, nel ‘Mestiere di vivere’, Pavese scrivesse “Ci si umilia per chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza di giungere alla fede”. Altro luogo monferrino toccato da Pavese fu Moncalvo dove incontrò Carlo Grillo che gli spirò la figura di Poli nel romanzo ‘Il diavolo sulle colline’.
A seguire Piercarlo Grimaldi, docente emerito di Antropologia culturale ed ex-rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo , che ha tratteggiato un quadro antropologico inedito di Pavese presentando il suo libro ‘Di lune e di falò. Cesare Pavese: antropologia del romanzo dell’addio”. Nucleo di questo saggio è la tesi di come l’ultimo romanzo di Pavese sia in realtà l’autobiografia del suo addio. “La luna e i falò” , dice Grimaldi, è lo specchio romanzato della sua storia di vita, metaforico testamento poetico, scientifico ed esistenziale che contiene e spiega le ragioni della maturata morte.
Cesare Pavese, dice ancora l’antropologo, individuò due vie per sfuggire all’insostenibile gravità della vita: il mito e il suicidio. Nel mezzo esisteva il suo travaglio di uomo, di autore, di contemporaneo. Quando si tolse la vita lo scrittore aveva con sé il suo libro dedicato al ‘mito’ (i “Dialoghi con Leucò”) , libro a cui si sentiva più legato, dove Il ‘mito’ era il paese, la campagna, la civiltà contadina, le ferie d’agosto, la dolce estate, i mattini radiosi, sintetizzando ‘la memoria’. Pavese fu anche profetico nel comprendere la contemporaneità, il passaggio dal mondo rurale alla città, il grande dolore di tornare al paese e non riuscire a recuperare la ‘comunità’, non riuscendo a ‘farsi memoria’ per la comunità della natia Santo Stefano Belbo. Nella “Luna e i falò”, legge Patrizia Camatel, “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
In questo voler ‘appaesarsi’, e non riuscirci, c’è tutto il suo dramma interiore, il pensare di non ‘rimanere’, di non potersi far ‘memoria’.
Grimaldi poi allarga il discoro evidenziando l’importanza delle tradizioni che ai nostri giorni vanno scomparendo e con esse il senso di sacralità. Le comunità perdono il loro ‘sapere’: nel mondo rurale si tramandava il vissuto oralmente, ora tutto viene messo su carta ma spesso gli scritti perdono il vero significato rispetto alla ‘voce’. La proposta dell’antropologo è di far riscoprire ai giovani Cesare Pavese che vide nitidamente il ‘sacro’, la bellezza del ‘mito’ e non per ultimo l’appartenenza ad una ‘comunità’.
L’evento era parte del progetto ‘La via dei Sacri monti. Arte e Natura’. Un ciclo di iniziative per la valorizzazione del paesaggio e dei santuari mariani del Piemonte di cui il nostro è parte imprescindibile.
Luciana Revello