Oggi, il 9 gennaio del 2025, in America è un giorno di lutto nazionale in memoria dell’ex presidente James Carter morto il 29 dicembre scorso all’età di cento anni. In suo onore rimane chiusa la borsa a Wall Street e partecipa alle esequie anche il prossimo presidente Donald Trump, un suo acerrimo avversario politico. Per la superpotenza, sconvolta dalla strage compiuta da un terrorista dell’Isis a New Orleans a Capodanno, è un momento di amara riflessione. Carter, un idealista premio Nobel della Pace nel 2002, fu il Presidente che più si adoprò per essa e per i diritti umani, dall’Unione sovietica al Medio Oriente, dove concluse lo storico accordo di Camp David tra l’Egitto e Israele, alla Cina, con la quale stabilì rapporti diplomatici. Nel suo unico mandato dal gennaio del 1976 al gennaio del 1981 l’ex Presidente perseguì un mondo in disarmo, con sempre meno guerre e senza l’incubo dell’olocausto atomico, un sogno che si potrebbe definire neokennediano. Ma attualmente l’America e il mondo attraversano il periodo più conflitturale dal collasso dell’Urss nel 1991, un periodo che avrà sbocchi disastrosi se i leaders non si ispireranno a lui e non faranno di questo 2025 l’anno della pace.
Il più sottovalutato
Del democratrico James Carter, al cui seguito viaggiai negli ultimi due anni della sua presidenza e che intervistai ad Atlanta nel 1981 dopo che venne sconfitto alle elezioni dal repubblicano Ronald Reagan, ho un ricordo ben diverso da quello della maggioranza degli storici e dei media americani. A causa loro “Jimmy who?”, Giacomino chi?, come fu beffardamente chiamato quando nelle vesti di governatore della Georgia si candidò alla Casa bianca nel 1976, perché pressoché sconosciuto agli elettori e perché umile coltivatore di “peanuts”, noccioline, Carter è passato alla storia come un mediocre Presidente, noioso e inefficace. Lo ritengo invece il più sottovalutato dei Presidenti americani dello scorso secolo. Dei dieci che incontrai (gli altri sono Nixon, Ford, Reagan, Bush Sr., Clinton, Bush Jr., Obama, Biden e Trump) era il più preparato, il più colto e il più trasparente. Un intellettuale di notevole spessore morale che all’interno del Paese appoggiava il movimento dei diritti civili e combatteva il razzismo e il classismo, e delle cui qualità gli americani si resero conto solo dopo che lasciò la Casa bianca, grazie ai suoi libri e alla Fondazione Habitat for Humanity o Abitato Umanitario per i senzatetto.
Una figura anomala
James Carter era un Presidente diverso se non anomalo, che vedeva nella politica non una vocazione né una professione ma il miglior strumento per l’introduzione delle riforme di cui avevano bisogno l’America e il mondo. Lo spingevano ad agire i valori famigliari oltre a quelli comunitari: la first lady Rosalyn, nota come “la magnolia di ferro”, dal fiore della Georgia, per la sua energia e fermezza in difesa delle minoranze e degli emarginati, era il suo primo consigliere, e da lei ebbe quattro figli, undici nipoti e quattordici pronipoti. La laurea in ingegneria all’Accademia Navale Militare, il breve comando di un sottomarino atomico nei mari della Cina e un incidente in una centrale nucleare a cui dovette portare personalmente rimedio lo persuasero che l’imperativo più importante fosse la pace, in casa e fuori. Per questo motivo, nel secondo giorno del proprio governo perdonò i renitenti alla leva della guerra del Vietnam placando il Paese e più tardi intensificò i negoziati del predecessore repubblicano Gerald Ford per la soluzione del problema della Palestina e avviò quelli con il leader sovietico Breznev per la limitazione delle armi strategiche, un accordo epocale firmato a Vienna nel giugno del 1979.
Vittima degli Ayatollah
Rammento che i media rinfacciarono a Carter, uomo di carattere introspettivo e riservato, di essere un povero comunicatore e che la finanza e l’industria gli rimproverarono di non avere prevenuto la “stagflation”, una mistura di ristagno produttivo e di iperinflazione che impoverì l’America l’ultimo anno del suo mandato. Ma mentre è vero che il Presidente non fu un maestro di relazioni pubbliche, è falso che fosse colpevole delle difficoltà economiche della Nazione. Carter rimase vittima della crisi energetica provocata dalla rivoluzione degli Ayatollah in Iran e dall’embargo petrolifero del mondo islamico, nonché del trauma generato dallo scoppio della centrale nucleare di Three Mile Island nella Pennsylvania. E per sua sfortuna nel 1980 non potè impedire che l’Urss invadesse l’Afganistan e che i sandinisti, filosovietici, salissero al potere in Nicaragua. A poco valsero le sue contromisure, le sanzioni contro Teheran e Mosca e il boicottaggio delle Olimpiadi là organizzate da un lato, e l’isolamento di Managua dall’altro. La maggior parte dell’America, che si era sentita umiliata dalla sconfitta in Vietnam, giudicò debole la sua leadership, e tra i democratici gli si schierò contro l’ultimo dei Kennedy.
La crisi con Teheran
A sconfiggere Carter alle elezioni del novembre del 1980 non fu tanto Reagan quanto l’Ayatollah Khomeini, il padre padrone dell’Iran. Il 4 novembre del 1979, Khomeini prese in ostaggio cinquanta e più diplomatici e funzionari americani, chiudendoli nella loro ambasciata. Nell’aprile successivo Carter tentò di liberarli con un’incursione segreta della Cia a Teheran, la cosiddetta “Operation eagle claw”, artiglio dell’aquila, ma dovette rinunciarvi quando otto marines morirono nello scontro tra un loro elicottero e un loro aereo. Negli Stati Uniti esplosero dimostrazioni di protesta, cartelli nelle strade invocarono l’uso dell’atomica contro gli Ayatollah, ma gli ostaggi americani vennero liberati solo un anno e due mesi e mezzo dopo, il 20 gennaio del 1981, il giorno dell’insediamento di Reagan alla Casa Bianca, l’estrema beffa di Khomeini a Carter. Si apprese in prosieguo di tempo che emissari del nuovo Presidente in Iran avevano discusso di nascosto del loro rilascio, nonché del rilascio di altri ostaggi in Medio Oriente in cambio di forniture militari e tecnologiche. Troppo tardi: alle urne Carter era stato travolto. Occorsero decenni perché l’America lo riabilitasse come “il miglior ex Presidente” della sua storia.
Meriti riconosciuti
Adesso i meriti di Carter sono messi in evidenza. Carter non imperniò solo la politica estera degli Stati Uniti sui diritti umani e la politica interna sui diritti civili, né cessò solo di intervenire negli affari di altri Paesi, da Panama a cui riconsegnò il Canale di cui Washington si era appropriata, all’Italia dove guardò alla questione comunista “con attenzione ma senza interferenze”, tutti enormi cambiamenti. Realizzò anche una riforma energetica basata sul risparmio dei consumi e sulle nuove tecnologie, a tutela del clima e dell’ambiente oltre che delle tasche dei suoi cittadini, e una riforma culturale e scolastica creando il ministero dell’Istruzione, fino ad allora inesistente. Ridimensionò infine la burocrazia deregolamentando interi settori del pubblico e del privato. Dirlo un Presidente per bene non sarebbe diminutivo. Lo mostrò fino alla tarda età con le sue mediazioni in numerose guerre, le sue verifiche dell’esito di varie elezioni su invito di lontani governi, le sue campagne per gli aiuti alimentari e contro le malattie infettive, le sue conferenze. A differenza di Bush Jr., che sottolineava di essere anche il capo supremo delle forze armate in quanto Presidente, Carter volle essere soprattutto un portatore di pace.
Nel mondo 160 conflitti
E ciò mi spinge a ripetere che oggi servirebbe un leader come lui. E non solo nei disumani conflitti di Gaza e dell’Ucraina, ma anche in altri che a noi europei sembrano secondari ma che ammontano a oltre centosessanta secondo un rapporto dell’Istituto di ricerca di Upssala e che hanno reso l’inizio di questo secolo il più sanguinario della storia dopo quello del Novecento con la sua Prima guerra mondiale. Il mondo di oggi è il più armato che sia mai esistito e nel 2025 sta sperimentando quella che viene presentata come una tecnologia miracolosa, l’Intelligenza artificiale, che però nelle mani sbagliate potrebbe diventare più pericolosa della bomba atomica, sperimentata ottanta anni fa, una ricorrenza tragica. Quasi ovunque inoltre sono in corso guerre cibernetiche segrete che possono paralizzare istituzioni, quelle finanziarie e sanitarie innanzitutto, colossali imprese, l’aviazione, i commerci e così via sia nel pubblico sia nel privato. Guerre, si badi bene, che rischiano di venire privatizzate almeno in parte perché vi partecipano come mercenari non più i militari erranti del Medioevo ma le regine dell’hi tech come la Space X di Elon Musk con i suoi satelliti Starlink, e i suoi equivalenti russi, cinese, iraniani, indiani, ecc.
L’urgenza della pace
Per la prima volta, l’urgenza della pace è immediata e globale. Come la bomba atomica, i droni i missili che si autocomandano e le macchine pensanti non distinguono tra militari e civili. Che essi colpiscano fisicamente i loro obbiettivi o che distruggano i dati in rete, una rete troppo vulnerabile, il risultato è lo stesso: un numero crescente di vittime tra bambini, donne e anziani, come a Gaza e in Ucraina. Non a caso, le agenzie di spionaggio e controspionaggio di tutte le potenze, comprese le più piccole, si occupano sempre più di sicurezza cibernetica tramite apposite unità come la 8200 a Israele, la Nsa o National Security agency in America, la Bsi o Ufficio federale di informazione in Germania, la Acn o Agenzia cibernetica nazionale in Italia. Circa mezzo secolo fa Carter, il meno imperiale dei Presidenti americani, indusse il premier israeliano Begin e il presidente egiziano Sadat a riconciliarsi e compì il primo passo verso la riduzione degli arsenali atomici. Vedremo presto se Donald Trump, Vladimir Putin, Xi Jinping, Benjamin Netanyahu, l’Ayatollah Khamenei e altri leaders riusciranno a imboccare la stessa strada.
Ennio Caretto