A parlar di Gianni Abbate comincio, come la mia personale vicenda impone, a parlare del professore, parola che ci giunge dal participio del deponente profiteri e che fa di Gianni uno che parla pubblicamente. Il pubblico non era poi quel granché nella prima meta degli anni ’70 nelle aule del primo piano del Liceo Cesare Balbo ed era spesso impegnato a seguire la voce del professus, ipnotizzato come chi segua gli svolazzi di un farfalla, le picchiate e risalite di un falchetto in montagna, le evoluzioni delle rondini in una sera d’estate. La voce scorreva continua, in un tappeto sonoro senza interruzione, non troppo veloce ma anche privo di sospensioni che non fossero finalizzate a qualche benefico effetto retorico. L’estrema naturalezza di emissione sonora, in un’apnea quasi continua, produceva un discorso che portava con sé compiuto senso attraverso complesse costruzioni sintattiche.
Le sequenze di subordinate si articolavano nel rigore di congiuntivi e condizionali e arricchivano di colore le proposizioni principali, le coordinate disgiuntive non rimanevano prive delle possibilità alternative anche quando molte subordinate le separavano. La gamma delle figure retoriche cosi come codificata dagli antichi grammatici era coperta pressoché per intero, ivi compresa l’invettiva, perlopiù indirizzata a qualche discutibile inlerpretazione critica e quasi mai agli irreprensibili angioletti che componevano l’auditorio. Trovava spazio la domanda retorica che era drammaticamente posta alla fine di una crescente tensione tra opinioni o interpretazioni discordanti e che costituiva il preambolo alla enunciazione di una affermazione chiarificatrice e di valore capitale nell’economia della intera lezione. La digressione rappresentava una perenne tentazione, allettava come una ulteriore delizia posta a portata di mano e che prometteva ulteriori preziose annotazioni per una compiuta comprensione del fatto. Qualche volta Gianni cedeva con evidente gusto alla digressione, anche se (questa portava in terreni di non stretta pertinenza al fatto letterario oggetto della lezione, ma comunque esaminati con il dovuto dettaglio e con la consueta competenza, altre volte la digressione era solo evocata e si riduceva a un gran rosso d’annata di cui si gode l’etichetta e al massimo il bouquet ma che non si arriva a gustare. Ovidio scrisse, vuoi per giustificarsi, vuoi per compiacersi, che “Quod tentabam dicere versus erat”, nel caso di quella macchina da spiegazione che ricordiamo essere Gianni sembrava che il respiro si declinasse con naturalezza e necessita nel fatto narrato, eviscerato, analizzato e portato alla comprensione della schiera di schiene piegate a scrivere appunti.
Si stava li come studenti a fronteggiare la mole enorme di nozioni che esigevano di uscire dai libri per trovare ospitalità nelle nostre teste e come capita a quella età, tutto quanto era a giorni alterni definitivamente chiaro o irrimediabilmente confuso, tutto era regolato da un ordine disvelato o esisteva solo un unico inestricabile caos. Invece dalle spiegazioni di Gianni si formavano significativi nuclei di ordine e di comprensione, saldi e motivati, non onnicomprensivi, ma legati a un preciso contesto e soprattutto resistenti alle continue oscillazioni di senso di cui sopra. Insomma anziché ballare tra il tutto e il niente, rimanevano in mano giorno per giorno nuove fondamenta ben radicate su cui costruire i propri personali edifici. Perlomeno alcune delle tante cose in ciclo e in terra di cui la nostra filosofia pretendeva di occuparsi trovavano un loro posto e una loro logica.
Ma la faccenda non era del tutto chiusa, perché sempre Gianni ci ricordava che le conclusioni cui faticosamente si arrivava erano comunque provvisorie e lo stesso impegno richiesto per ottenerle ci imponeva di rimetterle all’occorrenza in discussione. Insomma anche il poco che si strappava al disordine non era definitivo ed era sempre richiesto il coraggio e la responsabilità intellettuale di segare il palo della palafitta per cercarne uno piu saldo e affidabile. E cosi una volta dichiarati maturi (curiosa espressone, mi ricorda un caco rossastro e sul punto di scoppiare su un banco del mercato) si lasciava l’edificio di via Galeotto del Carretto portandosi dietro, anche senza averne una precisa consapevolezza, gli attrezzi artigianali del buon bricoleur, che costruisce con pazienza e onesta il suo mondo, che rimette mano alla sua opera quando si rende conto che presenta inaspettate inadeguatezze, che cerca confronto e idee nei libri e nelle altre espressioni della intemperante creativita umana. L’esperienza ha dimostrato che questo artigianato culturale è gradevole e stuzzicante, che non sempre porta a certezze ma di sicuro rende più amabile la vita e l’interazione con gli altri che popolano il mondo e che alla fin fine rappresenta uno dei doveri nei nostri confronti e nei confronti della chance che ci è stata concessa di esistere.
Le ragazze e i ragazzi di una delle classi di Gianni Abbate, una delle tante